Ci sono immagini “invisibili” perché convenzionalmente accettate e altre che, per qualche ragione, fanno gridare allo scandalo.
Siamo, più o meno consapevolmente, circondati da un numero infinito di immagini violente ogni giorno, in ogni luogo.
Le azioni quotidiane che ci troviamo a compiere quasi meccanicamente e che ci paiono fra le più innocenti, si svolgono anch'esse in contesti saturi di rimandi alla violenza; pensiamo ai banchi delle macellerie o delle pescherie, a certi scaffali di supermercato o alle sagre di paese in cui “si fa la festa” a qualche animale.
Eppure la brutalità che si cela dietro a ciò che mettiamo nel carrello appare astratta, non offende né oltraggia nessuno; attorniati da milioni di pezzi di animali sotto cellophane, asetticamente confezionati in vaschette bianche riposte una accanto all'altra, scegliamo di indignarci alla visione di un manifesto affisso in centro città.
Basta un candido bambolotto di plastica a farci perdere la testa, a scatenare reazioni accompagnate da aggettivi quali "osceno", "vergognoso", "eccessivo", "di cattivo gusto".
Qualcuno rivendica il diritto al proprio piatto di tortellini in brodo per natale.
C'è chi, disgustato, invoca una riflessione etica ed oggettiva sull'immagine utilizzata (un'etica e un'oggettività ad uso e consumo della specie umana), chi parla della necessità di evitare carni piene di ormoni, ritenendo quest'ultimo un atto “sufficientemente etico nei confronti delle bestie”. Più di così non si può fare, viva la libertà ma prima di tutto il rispetto per la vita umana, a ciascuno il proprio posto, i bambini non si toccano- questo il tenore delle reazioni.
Nel promuovere la campagna antispecista “CHI mangi oggi?” a Pordenone siamo stati fin dall'inizio consapevoli del fatto che l'immagine del bambolotto è, ancora per molti, inspiegabilmente considerata tabù, in quanto può rimandare alla figura di un bambino. Tuttavia sostenere un diretto collegamento con il mondo dell'infanzia è errato.
Il bambolotto è un umano, è ciascuno di noi. Rappresenta il nostro immedesimarsi nella condizione animale, in quei pezzi di animali (inscatolati, incellophanati, esposti) che con così tanta prepotenza ci circondano ovunque, quotidianamente.
La nostra società, pur così assuefatta a continue sollecitazioni visive violente, è portata a misurare le ingiustizie con il metro di giudizio che ella stessa ha concepito, convenientemente dettato dall'appartenenza di specie.
E' forse per questo motivo che, alla visione del bambolotto (l'umano al posto dell'animale), ci si appella così accoratamente al “cattivo gusto”; l'indignazione tout court è lo strumento più rapido e indolore per inibire riflessioni che possano andare nel profondo, al di là della simbolicità, scandagliando il nostro animo. Questa reazione è prevedibile, e la campagna si prefigge anche questo scopo: ottenere una reazione e sondare la gamma di risposte da parte dell'opinione pubblica.
Essa veicola quello che, nei fatti, è un messaggio inequivocabile: “gli animali non sono cose. Quando li mangi o li sfrutti, mangi QUALCUNO. Non QUALCOSA”.
Ma su una frase come questa la quasi totalità delle persone indignate preferisce non soffermarsi, concentrandosi piuttosto sul bambolotto per avventurarsi in fantasiose teorie, spingendosi persino a ipotetici rimandi alla pedofilia o al cannibalismo.
Nei giorni successivi al lancio della campagna a Pordenone abbiamo assistito ad accesi dibattiti sui social network, molti dei quali aventi come interlocutori genitori pordenonesi. Laddove, nella discussione, qualcuno provasse a riassumere a proprio modo il senso dell'iniziativa, parlando di sofferenza animale o anche semplicemente di giustizia sociale, egli veniva prontamente incalzato con riferimenti al pomodoro che soffre e alla lattuga recisa.
Alcune mamme si sono chieste "come spiego questa cosa a un bimbo?"
La stessa domanda pare non se la pongano transitando con i loro figli davanti alle vetrine delle macellerie, davanti a tanti animali ancora interi appesi a un gancio.
Ci sarebbe da chiedersi come spiegheranno ai bambini di quei corpi (veri, non bambolotti) senza vita.
E' oltremodo bizzarro e a tratti sorprendente come la consuetudine renda così impercettibile la sofferenza di altre specie e come, invece, un comunissimo bambolotto possa saltare così all'occhio, ingenerando sdegno.
E quando c'è sdegno si avverte la necessità di innalzare le barriere dell'autodifesa, appellandoci alle abitudini, alla necessità di mangiare animali per abitudine, come se non esistesse una vera scelta non violenta, come se non mangiare o sfruttare animali implicasse necessariamente l'isolamento dalla società, il confino in un'isola deserta, un vivere da naufraghi.
Ecco che, nel commentare la campagna, si sottolinea come la carne del supermercato non provenga in realtà da allevamenti intensivi, bensì da contesti più piccoli e “virtuosi”.
La questione pare essere d'improvviso tutta legata gli allevamenti intensivi, che “maltrattano gli animali”. Mentre "se fai riferimento al macellaio di fiducia e ti informi da dove viene la carne che compri, è già abbastanza etico".
Una delle frasi più indicative fra quelle lette in rete in questa occasione riguarda la parola vegan: “sembra una setta, non un modo di alimentarsi".
E' disarmante come ancora per molte persone vegan corrisponda a una setta (nella peggiore delle ipotesi) o, tuttalpiù, a un modo di alimentarsi.
La scelta etica che vi sta alla base non viene mai seriamente presa in considerazione, perché scomoda; liquidando il veganismo come fenomeno alimentare si chiude la questione, non si lascia spazio a implicazioni che possano in qualche modo minare le coscienze.
E d'innanzi al bambolotto sotto cellophane, che colpisce come un pugno allo stomaco, si può (a differenza degli animali, il cui destino è segnato) scegliere di andare avanti, difendendo comode abitudini e allontanando scomode verità: basterà anteporre il disgusto alla riflessione.
Animalisti FVG
per portare la campagna antispecista "CHI mangi oggi?" nella tua città visita questa pagina
Quello di cui hanno bisogno gli orchi (vivisettori, allevatori, cacciatori, mangiatori di bambini di altre specie, circensi con gli animali, zooerasti, industrie di pellicce etc) è quello che desidera anche la maggioranza degli umani (non-animalisti, o animalisti da salotto): la sparizione del disturbo animalista, o se non sia possibile, allora, la "normalizzazione": campagne animalista "invisibili", silenziose, ad impatto zero, che non disturbano nessuno, con i manifesti blandi, senza immagini forti, meglio ancora senza immagini, perfette senza manifesti, no megafoni, no fischietti, nessun urlo, cortei di cui non te ne accorgi perché vanno in punta ai piedi, ancora meglio se fatti dietro i muri alti del cortile chiuso della propria casa, o se sussurrati nell'intimità del proprio cesso... perché a questo melange degli orchi e gli umani viziati o opportunisti, PIACCIONO ANIMALISTI QUANDO NON CONTANO NULLA!
RispondiEliminaAttenti a non cadere nella trappola di "delicatezza"! Attorno a noi ci sono decine di esempi delle situazioni nelle quali, per la paura di "perdere voti (consenso, membri, iscritti, sostenitori)", si è completamente perso il senso dello scopo. Non ci vuole un grande sforzo per riconoscere il sindromo nel declino dei Verdi, collaborazionismo dei svariati WWF, mollezza dei diversi PD e tanti altri, intrappolati e morti viventi nella ragnatela della delicatezza...
Ve ne rendete conto che se avessimo seguito quella strada, i beagles di Green Hill sarebbero tutti già morti!
Non permettiamo che ci convincono che siamo più efficienti se imbavagliati dalle proprie mani!
Cari Animalisti FVG, tutto l'appoggio possibile per la vostra campagna! Continuate così perchè smuovere le coscienze è il compito dell'animalismo antispecista! Come diceva il grande Oscar Wilde: "La verità non è ciò che si direbbe una buona, gentile e fine fanciulla" e queste signore che si scandalizzano e non sanno cosa rispondere ai figli, giustamente curiosi, dovrebbero imparare la lezione.
RispondiElimina"La verità non è ciò che si direbbe una buona, gentile e fine fanciulla"
Eliminaquindi mi stai dicendo che imporre un ideale con la forza non è violenza?
i vegani si nutrono di altri esseri viventi.
"le piante non sono cose.
Quando le mangi o le sfrutti mangi qualcuno"
ricordalo!
"La scelta etica che vi sta alla base non viene mai seriamente presa in considerazione, perché scomoda; liquidando il veganismo come fenomeno alimentare si chiude la questione, non si lascia spazio a implicazioni che possano in qualche modo minare le coscienze. "
EliminaNon fare la vittima.
La scelta vegan è come quella di non ascoltare musica techno.
E' un gusto, non è una necessità, non risponde ad alcun principio morale superiore (la morale è umana e come tutte le cose umane, dipendente dalla società che l'ha create e/o imposta).
Ora se tu vuoi crederci, credici.
Se tu vuoi dirmi che mangiare un petto di pollo è come mangiare un bambino, hai detto una scemenza.
Mangiare una pianta è nutrirsi di un essere vivente, coglierla è strapparla al proprio habitat, in più la mangi ancora viva.
Ora, dite che non volete che muoiano gli animali di compagnia, che probabilmente non avete mai visto in cattività e facciamola finita.
I vegani non sono una setta, sono solo dei lobbisti come tutti i gruppi di opinione.
Il veganesimo è un grande business, serve a far fare soldi a chi, invece di dover allevare vacche e polli spendendo un sacco di soldi, vuole farvi comprare i pomodori biologici al doppio del prezzo, pagando chi li raccoglie qualche centesimo al quintale.
E che chi li coglie sia un poveraccio immigrato e sfruttato dalle mafie, chi se ne frega.
Bella morale del menga...
Ottimo articolo, complimenti!
RispondiEliminaIl disgusto è un'emozione immediata, senza filtri, la riflessione invece presuppone un lavoro intellettivo e richiede tempo (ed una capacità di elaborazione che probabilmente non tutti posseggono, né si sforzano più di tanto di possedere).
Il problema è sempre, al solito, quel confine ontologico di specie oltre il quale l'umano innalza una barriera che lo separa dagli altri senzienti, per cui vedere un bambolotto di plastica, le cui fattezze rimandano agli esseri umani in carne ed ossa, indigna di più che vedere veri esseri senzienti fatti a pezzi. Ciò è paradossale e quel che servirebbe è l'adozione di una prospettiva inedita attraverso cui guardare alla realtà che circonda. Chissà, forse la reazione immediata di disgusto in alcuni si trasformerà in un'elaborazione più consapevole. Speriamo!
ti ringraziamo per questi pensieri, che condividiamo. L'augurio che fai, ossia quello che la reazione di disgusto possa, in alcuni, portare ad un'elaborazione più consapevole della realtà che ci circonda, è l'augurio che ci facciamo anche noi.
Eliminaquesta campagna pubblicitaria non mi convince. primo, la terapia d'urto spesso è inefficace, lo schock instaura meccanismi di rimozione veloci, secondo la mimesis è improbabile, non accadrà mai che un bimbo finisca in un supermercato e quindi il rischio è che si scada nella mera provocazione, terzo ma non per ordine di importanza, il messaggio presuppone una completa elaborazione del problema animalista, e quindi non si rivolge a chi non ne sa nulla, per finire diventare vegani non è la soluzione, è la conseguenza di una scelta etica, lo dimostra il fatto che l'aumento di vegani e vegetariani non sposta di una virgola lo sfruttamento animale che invece è in continuo crescendo. l'utilizzo della figura infantile è banale, tutti sappiamo (ma non riguarda i nostri figli) quante vittime innocenti miete la fame. l'indifferenza regna sovrana fino a quando la realtà non è direttamente palpabile.
Eliminaottima riflessione.
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