“Protesta”- dichiarava nel 1966- non è una parola mia. Non ho mai pensato a me in questi termini... è una parola da parco dei divertimenti... non ho mai avuto interesse nella protesta, fin dall'inizio... Le canzoni con un messaggio, come tutti sanno, sono un bidone... soltanto i redattori dei giornalini scolastici e le ragazzine sotto i quattordici possono sprecarci il loro tempo... chiunque abbia un messaggio imparerà dall'esperienza che non può metterlo dentro una canzone...
e, riferendosi alle dichiarazioni di Pete Seeger sulla possibilità che hanno le canzoni di cambiare la gente e aiutare a costruire la comprensione internazionale:
non credo che le canzoni possano cambiare le persone. Non sono Pinocchio... non sono parte di quella storia
e nel 1984 allo stesso giornale:
non sono uno scrittore di canzoni politiche... la politica uccide e non porta a niente di vivo. La politica è corrotta lo sanno tutti.
Ciò nonostante non si può dimenticare l'attenzione, la comprensione, la compassione verso i meno fortunati, i deboli, i poveri, gli emarginati, le vittime del sistema politico ed economico, della giustizia, dei pregiudizi razziali e ideologici che sottendono molte sue canzoni, facendo della sua arte una cifra e un'alta espressione della contingenza e della sofferenza umana.
Avevo quindici anni quando, appena iscritto al Liceo, gironzolavo per i festini degli amici a Gorizia, chitarra a tracolla, reggi-armonica al collo, zazzera arruffata e berretto alla Huck Finn (proprio come appare Dylan nella copertina del suo primo album o nel famoso articolo di Robert Shelton sul New York Times del 29 settembre 1961 che ne sancì il debutto): mentre i miei amici saltavano e ballavano sulle note di Wild boys dei Duran Duran o Last Christmas degli Wham, io, nell'altra stanza cantavo, per una stretta cerchia di “illuminati e fini intenditori” (sia ben chiaro senza togliere niente a nessuno), di un povero vagabondo sdraiato in un portone, il viso affondato nel freddo marciapiede e un gradino come guanciale, che guarda il mondo dal suo buco per terra aspettando il futuro come un cavallo azzoppato e che morirà nello scolo restando senza nome e senza alcuno che canti il suo lamento (Only a Hobo); o della povera Hattie Carroll, una cameriera nera con undici figli, uccisa, nel febbraio 1963, durante una festa da ballo al Lord Baltimore Hotel di Baltimore nel Maryland, da un colpo di bastone sferratole, dopo averla insultata, dal ventiquattrenne ubriaco William Devereux Zantzinger proprietario di piantagioni di tabacco, le cui amicizie nell'ambiente politico e giuridico gli ridussero la pena ad una multa di 625 dollari e soli tre mesi di reclusione (The lonesome Death of Hattie Carroll)(1); continuavo a chiedere assieme a Dylan “quante orecchie dovesse avere un uomo prima di poter sentire la gente piangere” (Blowin' in the wind).
E come dimenticare The Death of Emmett Till, la vicenda di un quindicenne di colore che nel 1955, a Chicago, aveva osato fischiare ad una ragazza bianca ed era stato massacrato dai fratelli di questa e gettato nel Tallahatchie River: quando la polizia lo ritrovò era talmente sfigurato che lo identificarono solo grazie ad un anello; Train a-travelin' che narra dell'autobus dei Freedom Riders bruciato dal Ku Klux Klan in Alabama; Master of War ispirata dall'ultimo discorso presidenziale di Dwight Eisenhower in cui il presidente metteva in guardia il governo dall'ascesa disastrosa e illegale del complesso militare-industriale; Oxford Town che ricorda i disordini, le morti e i feriti che, nel giugno 1962, accompagnarono l'iscrizione del primo afro-americano (James H. Meredith) all' Università del Mississippi: solo l'intervento di ventitremila agenti federali mandati da Kennedy riuscirono a proteggere Meredith dalle grinfie del governatore Ross Barnett e dagli studenti bianchi; Only a Pawn in Their Game sull'assassinio, nel 1963 a Jackson Mississippi, dell'attivista per la lotta dei diritti civili Medgar Wiley Evers per mano di Byron de la Beckwith, un noto white supremacist filonazista, benestante con grossi appoggi politici che fu poi condannato solo nel 1994: questa canzone fu cantata da Dylan la mattina del 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial a Washington poche ore prima che Martin Luther King pronunciasse il suo storico discorso “I have a dream”; Hurricane sulla vicenda del pugile di colore Rubin “Hurricane” Carter accusato, nel 1966, assieme a John Artis di triplice omicidio e scarcerato solo nel 1985 quando, ad un terzo processo, vennero scoperte delle irregolarità procedurali nei processi precedenti, dovute evidentemente a pregiudizi razziali.
In altrettante canzoni Dylan denuncia pregiudizi ideologici (Talkin' John Birch Paranoid Blues per cui rifiutò di esibirsi al prestigioso e seguitissimo The Ed Sullivan Show), la disoccupazione (ad esempio la crisi industria mineraria nel Mesabi Range in North Country Blues), l'esasperazione (Ballad of Hollis Brown), la criminalità (Ballad of Donald White), la rigidità della giustizia (Percy's Song), la guerra (John Brown, With God on Our Side): come dimenticare l'immagine del bambino appena nato circondato da lupi feroci e quella del boia dalla faccia sempre nascosta in A Hard Rain's A-Gonna Fall?
Canzoni, immagini, versi, storie e personaggi con cui sono cresciuto, che hanno accompagnato la mia vita, che hanno in parte guidato la mia sensibilità verso la comprensione, l'attenzione e l'ascolto di chiunque che, per svariati motivi o percorsi della vita, si trovi nel bisogno, nell'incertezza, nella paura o nel dolore: non solo la mia vita ma anche quella di molti miei coetanei, della generazione che mi ha preceduto e di quella che mi ha seguito: Bob Dylan, fino ad oggi, ha parlato a ben tre generazioni.
L'abbiamo visto cantare alla Magee's Farm di Greenwood nel Mississippi alla manifestazione per il diritto di voto agli afro-americani organizzata dalla SNCC (Student Non-Violent Coordinating Committee) e alla marcia su Washington a fianco di Martin Luther King nel 1963; al concerto per il Bangladesh nel 1971 per aiutare le popolazioni affamate che dal Pakistan orientale si riversarono in India; nel 1985 a ben tre iniziative: il Live Aid Usa for Africa, il Farm Aid nato da un'idea dello stesso Dylan (fatto positivo - scrisse allora la rivista Rolling Stone- che quando Bob Dylan borbotta qualcosa, il mondo ascolti ancora) e Sun City contro l'apartheid.
L'attore Jack Nicholson così presentò Bob Dylan al concerto Usa for Africa a Philadelphia nel 1985: - L'opera di alcuni artisti parla per la loro generazione. Una delle grandi voci della libertà in America, non può che essere lui: il trascendente Bob Dylan!-.
Nel 1966 Bob Dylan dichiarò ad un giornalista:
Non sento la responsabilità, no. Chiunque sia ad ascoltare le mie canzoni, non deve niente a me. Come potrei avere delle responsabilità verso tutte quelle migliaia di persone? Cosa potrebbe farmi pensare che io devo qualcosa a qualcuno che semplicemente è qui? Non ho mai scritto una canzone che incomincia con le parole: “Vi ho riunito qui stasera...”
Non sono proprio la persona giusta per andare in giro per tutta la nazione a salvare anime... non sono un pastore. E non ho intenzione di salvare nessuno dal suo fato, di cui oltretutto non so nulla
e più tardi nel 1978,
Bob Dylan non è un gatto, non ha nove vite, può fare solo quello che può... Se qualcuno t'innalza ad un livello irreale, è un problema suo. Lui sta solo confrontando il suo io superficiale con qualcosa di irreale. Prima o poi se ne renderà conto, ne sono sicuro... io non sono una figura immaginaria.
Bob Dylan e le sue canzoni fanno parte ormai di un immaginario collettivo trigenerazionale: è un ponte che ci riporta, nella nostra immaginazione, alle lontane lotte studentesche per i diritti civili, alla crisi dei missili a Cuba, alla guerra nel Vietnam, alle segregazioni razziali, al Ku Klux Klan, ai Kennedy, a Martin Luther King, a Malcom X, a Nixon, a Carter, all'Isola di Wight, ai poeti della beat-generation, al Chelsea Hotel dove, ad un'estremità del settimo piano, registi e musicisti si accalcavano da Harry Smith ad ascoltare Highway 61 Revisited o Blonde on Blonde.
Bob Dylan c'era sempre e dappertutto: Bob Dylan! - disse una volta Bono- E' come voler parlare delle piramidi. Cosa puoi dire? Ti fai da parte e resti lì a bocca aperta.
Ad ogni suo concerto, a comparire sul palco, non è solo quell'ometto con Stetson e baffetti alla Vincent Price vestito da vecchio Medicine man del Far-West: bensì cinquantanni della nostra storia, della storia del nostro pianeta, le ombre di coloro che hanno portato l'espressione dello spirito umano ai suoi massimi livelli nelle diverse arti; egli è, per la sua stessa trigenerazionalità, specchio della nostra cultura: questa è la sua grande responsabilità!
Grande responsabilità anche a livello mediatico, naturalmente: la sua sola presenza fisica è un'ingiunzione storico-culturale e sociale, altroché una figura immaginaria o qualcosa d'irreale!
La sua presenza ad “Aria di festa” assume un preciso significato e lancia un messaggio che contrasta con i sentimenti di comunanza al dolore, alla sofferenza, all'ingiustizia e allo sfruttamento che molte sue canzoni hanno evocato o fatto addirittura nascere in molti di noi.
Grande amarezza e delusione, dicevo all'inizio, nel constatare che Dylan, evidentemente non è riuscito a tenere il passo sulla strada che egli stesso ci ha indicato ed è rimasto, tutto sommato, sordo e cieco verso altre forme di sofferenza, sfruttamento e morte: quelle delle altre specie animali; questo è il messaggio che l'artista irresponsabilmente ha deciso di comunicare con la sua presenza sul palco di San Daniele del Friuli.
In Blowin' in the wind, Dylan si chiede per quanto tempo l'uomo povrà ancora voltare la testa fingendo di non vedere: dal palco di San Daniele gli sarà impossibile guardar altrove; ovunque girerà lo sguardo incontrerà l'apoteosi della malvagità e della violenza umana su altre specie senzienti; San Daniele del Friuli è una vera e propria Treblinka con i suoi prosciuttifici, quelle monumentali are sacrificali messe in fila come stazioni della via crucis sulla strada per Villanova, pari a castelli o fortezze senza finestre, con le sue vie e vetrine piene di brandelli di carne e pezzi di carcassa: un mattatoio, un cimitero.
Salendo sul palco egli contribuisce e incentiva direttamente la morte di creature senzienti, promuove e diviene testimone della logica di potere e sovranità, dell'ingordigia e dell'avidità umana: irresponsabilmente, abbiamo detto, e, peggio, acriticamente poiché, io penso, non gli sarebbe stato di grande danno valutare più seriamente e a fondo l'opportunità della sua presenza su quel palco e, in fondo, declinare l'invito degli organizzatori.
Vien da sé che una profonda sensibilità e compassione per la sofferenza altrui non si lascerà mai incanalare in specismi o percorsi ideologici: essa si dà sempre come Stimmung per percorsi di liberazione e affrancamento che concorrono paralleli alla stessa meta e il successo dell'uno sarà il successo dell'altro; l'animale non-umano è il più indifeso e impotente e per questo ci è prioritario dare eco alla sua sofferenza.
Alla mia grande perplessità circa la totale cecità e indifferenza di questi grandi artisti che hanno saputo cogliere ed esprimere così bene lo spirito umano nella sua precarietà, contingenza, miseria ma anche nella sua capacità di amare, immaginare e creare, si accompagna il mio sogno più grande: che un giorno possano aprire gli occhi, porgere l'orecchio, voltare la testa verso la sofferenza animale e, impugnata la penna, il pennello, la macchina fotografica, la chitarra o la cinepresa farsene espressione.
Questo non deve essere un mio sogno ma una loro responsabilità.
Infine, lo stupore: Bob Dylan, che abbiamo visto far visita a Woody Guthrie al Greystone Hospital di Morristown, a fianco di Martin Luther King alla marcia su Washington, assieme ad Allen Ginsberg sulla tomba di Jack Kerouac a Lowell, che giocò a ping pong con Henry Miller, Bob Dylan immortalato dagli screen test di Andy Warhol e uno dei più grandi poeti americani del secondo novecento, le cui canzoni furono inni per intere generazioni, celebrato e tributato da innumerevoli star della musica e del cinema, da romanzieri e poeti, i cui versi fanno parte ormai dell'immaginario collettivo: cosa ci fa questa icona ad una sagra paesana?
Decisamente irriverente verso la sua stessa arte e immagine presentarsi sul palco di una sagra che, giocando la carta del turismo, dell'ambiente e magari della cultura, va a ingrassare il portafogli di chi campa e gode non solo sui fondi pubblici ma soprattutto sulla pelle di quelle povere creature esposte a pezzi per le strade e nei ristoranti della città: che cultura potrà mai trasmettere questo tipo di iniziative se non quella di mangiare fino ad ingozzarsi, fino ad intasare il cervello in modo che non si ragioni più, in modo che non si riesca più ad immaginare dimensioni diverse da quella che il sistema ci propone, in modo che non ci si renda conto della propria noia, dell'egoismo e narcisismo, del profondo egotismo e menefreghismo che popolano ogni ora della nostra esistenza? Questa è la cornice che la sagra di San Daniele offrirà a Bob Dylan.
Infine, compatisco tutti coloro che abitano a San Daniele del Friuli e la pensano come me: ce ne saranno sicuramente e voglio dire loro che gli riconosco una grande forza di carattere a continuare a vivere in un mattatoio, in un campo di sterminio.
Ovviamente non voglio offendere tutti coloro che correranno a vedere Bob Dylan, magari per la prima volta nella loro vita approfittando anche del prezzo, questa volta veramente popolare, del biglietto; però io, questa volta, non ci sarò e, per citare Dylan, cerco di vivere in equilibrio tra sconforto e speranza, sempre tra questi due fuochi.
Rodrigo Codermatz
(1) Tra il 1991 e il 2004 Zantzinger fu coinvolto in altri gravi casi giudiziari a danno della comunità afro-americana di Baltimore