Un aspetto della mercificazione e della reificazione totale della nostra società e del nostro tempo è l'assoluto e acritico alienare il cambiamento, il progresso e lo sviluppo da noi stessi e relegarlo e confinarlo nel mondo delle cose: ossia siamo giunti al punto di intendere e perseguire il miglioramento solo riguardo all'utilizzabile, all'oggetto di consumo o ad uno stato o assetto in cui noi ci ritroviamo gettati.
Nel primo caso abbiamo il comfort, nel secondo una posizione: da una parte foraggiamo i tecnocrati, dall'altra i produttori.
In entrambi i casi noi ci auto-estromettiamo dalla facoltà di cambiare perché nella tecnocrazia ci affidiamo ciecamente agli specialisti, alla tecnica, alla ricerca, nella produzione agli alti e bassi del mercato.
In sostanza oggetto o apparecchio tecnologico sempre più confortevole e prestante e successo sono oggi gli unici metri per misurare sviluppo e progresso umano per la persona media: quando abbiamo l'ultima tecnologia in mano e un bel posto sotto il sedere, siamo tranquilli e la nostra preoccupazione più grossa è ottenere o mantenere questo assetto conveniente.
Il progresso è l'entropico assestarsi delle condizioni in cui ci ritroviamo e noi ci giriamo e rigiriamo cambiando fianco e aggiungendo cuscini per dormire meglio; sì, perché è proprio un letargo questo nostro accomodarci e convivere con la massima tecnologia da una parte e la ruota di pietra di molte nostre abitudini, consuetudini e tradizioni dall'altra: queste si ripresentano ritualmente nella loro periodicità e immortalità e non c'è la più lontana speranza che possano essere messe in questione da parte nostra. Tradizioni e abitudini che ci bloccano con i loro tentacoli, non ci lasciano andare ma ci trattengono a sé: e mentre il mondo nei suoi distruttivi e catastrofici brancolamenti sta ormai rantolando e parla alla nostra coscienza, noi continuiamo miopi e sordi a gingillarci in primitive usanze e in comportamenti infantili.
Che dire allora oggi, alla vigilia delle festività, ad un uomo, un padre, un adulto, che si appresta ad acquistare dei botti e dei petardi quando gli si continua insistentemente a ripetere che son dannosi e mietono ogni anno vittime e gravi menomazioni tra uomini e animali?
Che dire se non invocarlo per l'ennesima volta di crescere e maturare, di rendersi finalmente consapevole e responsabile dei suoi comportamenti, di dedicarsi a qualcosa di più edificante, di dare un seppur minimo contributo ad uscire dalla più completa barbarie e inciviltà; poiché se ad un individuo viene detto che un comportamento è pericoloso e nocivo e continua imperterrito nel suo vizio è evidente che lo fa perché non crede che la disgrazia gli possa capitare in prima persona: lascia, in poche parole, che a farsi male siano gli altri.
E se è un genitore, a maggior ragione lo pregheremo affinché presenti ai figli un modo diverso di vivere, di giocare, di divertirsi, festeggiare, un modo diverso di approcciarsi e rapportarsi al mondo e ai suoi inquilini.
Ma abbiamo visto prima quanto l'individuo sia refrattario al cambiamento, come spesso deleghi l'evoluzione e lo sviluppo solo a dei processi senza coinvolgere anche la scelta personale; e a lavarsi le mani sono soprattutto coloro che, al contrario, dovrebbero responsabilizzare ed educare e che ora si aspettano forse la mia filippica contro venerabili e dinastiche usanze: no! La storia serve l'ideologia e la tradizione mentre noi dobbiamo invece guardare al nostro presente, rompere con il passato e abbozzare nuove traccie e traiettorie; non è importante avere esempi ma essere esempi e la nostra storia e la nostra cultura non possono esserlo. Il nostro passato ci ha tradito e non ha parlato come doveva, fino in fondo!
Chiediamoci, invece, che gusto c'è nell'esplodere un petardo.
Molti come me non l'hanno mai fatto neppure da bambini perché non erano interessati, forse ne erano impauriti o preferivano altre forme di divertimento; altri lo continuano a fare anche da adulti ammettendo che “fare i botti e tirar petardi” gli ricordano le vacanze di Natale della loro infanzia quando si aveva il permesso di uscire e stare un po' di più con gli amici; soprattutto il piacere di stare in compagnia, di fare “gruppo”; il “fare i botti” era il momento in cui la “banda” riusciva finalmente a riunirsi e aveva un senso perché lo si faceva assieme, in gruppo: farlo da soli e isolatamente non aveva alcun senso, non c'era nessun gusto.
Rifacendolo ora con i figli è come coinvolgere questi nella propria infanzia e in questi riprenderla affinché si annulli lo iato generazionale e rimanga infine un vissuto di continuità.
Pratica “tribale” di appartenenza ad una banda, come primitivo istituto normativo e processo invasivo di socializzazione forzata che emargina ogni possibile rimanere soli nella più propria possibilità, che prende forza dal necessitarsi reciproco di tante individualità insicure o disattese che spesso sfocia in impulsi compensatori che possono andare dall'eccitazione a una scarica di tensione, come la risata isterica dopo un forte e improvviso spavento (effetto montagne russe), al piacere di “aggredire” l'altro a sorpresa, al vero e proprio sadismo o ancora al piacere di mettere sotto-sopra l'ordine del silenzio, smuovere l'aria con un treno impazzito di urti sonori, piacere di esplodere e riverberarsi in mille eco, disperdersi nel mondo tra gli altri, brivido dell'inatteso e dell'improvviso: potremmo a pieno titolo iscrivere questo fenomeno nel “bullismo” quale sco-ordinata e disorganizzata forma di incanalare e intenzionare l'innata pulsione al movimento (la nostra originalità), al cambiamento, a modificare noi stessi: spreco e improduttivo investimento di forze che potrebbero essere altrimenti espresse in creatività o pensiero dialettico e invece si manifestano spaventando, terrificando, nuocendo, ledendo, uccidendo (sottolineo sempre il carattere cruento e necrofilo della nostra società).
Pulsione al movimento e al cambiamento che la cultura, tramite la sua ancilla, la tradizione, deforma o reprime in noi ma che noi, al punto di sviluppo e progresso di cui andiamo tanto fieri, dovremmo saper sublimare diversamente, con maggiore responsabilità e senso critico e soprattutto col dovere morale di chiederci se tutto ciò può essere inteso come accettabile anche nella società non umana che noi, con queste pratiche, lediamo.
Invece più che mai in questi giorni, in risposta alla campagna “No ai botti di Capodanno”, si moltiplicano su Facebook pagine e profili che inneggiano e istigano alla violenza sugli animali soprattutto domestici con frasi del tipo “esplodi un cane salva un petardo”contro i quali non si può fare niente poiché “la pagina risponde agli standard di comunità di Facebook”.
L'immaginario violento che vi si ritrova mi riporta alla mia infanzia, alla mia banda, o per meglio dire alla banda di mio fratello maggiore alla quale io non appartenevo se non come suo fastidioso fardello, in cui la vecchia storia (leggenda metropolitana) di aver sventrato un gatto con un petardo era una vanteria per poter assurgere al comando della banda: per fortuna, che io sappia, nessuno l'aveva e l'avrebbe mai fatto.
Un'aggressività tipicamente epistemofilica, cifra metonìmica di una condizione regressa in cui nell'individuo convergono da una parte un'aggressività volta contro la società che lo abbandona e dall'altra un'aggressività contro la stessa società che l'ha reso regolare, normale, pulito, puntuale, che lo obbliga a ritenere e sublimare, a procrastinare, una società che “evira”; epistemofilica perché quest'aggressività non solo vuole appropriarsi della società ma anche sventrarla.
Purtroppo spesso tale aggressività non rimane confinata nei seppur pericolosi deliri di veri e propri poveri mentecatti e balordi che Facebook protegge e lascia vaneggiare; sotto diverse forme ricompare in ogni angolo della nostra città, sullo schermo, per strada, nelle scuole: per esempio, tra i vari modi di rielaborare e rendere socialmente accettabile notevoli quantità di aggressività e sadismo è farne uno sport o una tradizione come, ad esempio, quella dei “botti di Capodanno”.
Rodrigo Codermatz