foto: © Nemesi Animale
E' partito in questi giorni l'iter che potrebbe condurre alla nascita di un allevamento di 25 mila galline ovaiole a Spilimbergo, in provincia di Pordenone. Questo impianto, se portato a compimento, andrebbe ad aggiungersi ad un altro allevamento intensivo (questa volta di polli da carne) di possibile futura realizzazione a Chions.
Per farci un'idea, ecco qualche dato sul possibile futuro allevamento di polli da carne di Chions (PN):
997.850 capi l'anno
ogni capannone ospiterebbe 44.350 pulcini per ciclo, con la presenza totale
di 221.750 polli ad ogni ciclo
a circa 200 metri dal sito interessato esiste un altro grande allevamento di suini
che conta 1800/1900 capi
Ogniqualvolta prende vita un nuovo progetto per un allevamento intensivo in provincia assistiamo sempre più spesso al formarsi di comitati spontanei di cittadini (nella maggior parte dei casi residenti nei pressi del sito del futuro allevamento) che, appoggiati da associazioni ambientaliste, contestano e mettono in discussione la realizzazione del progetto. Le ragioni più comunemente addotte dal fronte del "no" dei comitati di residenti sono di impronta ambientalista.
Una visione ambientalista tuttavia parziale, non lungimirante, azzardiamo dire miope in quanto attenta più che altro all'impatto che l'allevamento avrebbe a livello locale; impatto di cui, oltretutto, vengono presi in considerazione solamente alcuni elementi, tralasciandone altri.
Se davvero di benessere del territorio si vuole parlare (per quanto a nostro avviso la vera questione sia quella della sorte di milioni di animali, inconsapevoli comparse il cui destino pare non stare a cuore a nessuno), non ci si deve dimenticare che il territorio da salvaguardare dovrebbe sempre essere più ampio del proprio cortile; e se è vero che l'impatto ambientale ha un peso e un'importanza degni di considerazione, ciò deve valere anche nel caso l'allevamento sorga in altro sito, lontano proprio da quel "cortile" di casa in nome di cui ci si batte.
In caso contrario la parola chiave per definire certi fronti di opposizione agli allevamenti locali non potrebbe essere altro che NIMBY (acronimo inglese per "Not In My Back Yard", letteralmente "Non nel mio cortile"). Con questa sigla si indica un atteggiamento riscontrabile in alcune proteste contro opere che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sui territori in cui verranno costruite; questo atteggiamento consiste nel riconoscere in qualche modo come necessari, inevitabili o comunque possibili gli oggetti del contendere ma, contemporaneamente, nel non volerli nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni sull'ambiente locale.
Nel caso dell'allevamento non vi si oppone resistenza mettendolo in discussione in linea generale in quanto non è il concetto di allevamento in sé (con tutto ciò che esso rappresenta) a suscitare dissenso o indignazione, bensì l'idea che il "problema" allevamento vada a interferire con la quotidianità dei residenti, che dovrebbero fare i conti con questioni come l'impatto degli odori, problemi di viabilità o la parziale perdita del paesaggio.
Eppure il pianeta che abitiamo e che ogni giorno pieghiamo alla nostra volontà (violentandone ogni forma di vita) non manca di ricordarci che non esistono confini per la salvaguardia della natura e delle creature che la popolano.
Volendo soffermarci per un attimo su questioni che non fanno parte della nostra sfera d'azione (essendo il nostro sguardo puntato sempre e in primo luogo sulla questione animale) ci preme ricordare a quanti si oppongono alla nascita di un allevamento esclusivamente in nome del benessere della propria comunità, come questi luoghi (solo per citare due fra i tanti punti sollevati in questi ultimi anni da istituzioni di stampo internazionale sull'impatto degli allevamenti) siano veri e propri laboratori in cui nuovi virus prendono vita e si sviluppano e come il massiccio utilizzo di antibiotici somministrati agli animali abbia non trascurabili conseguenze sulla salute dei cosiddetti "utilizzatori finali" (spesso anche la stessa comunità che si oppone all'allevamento).
Il problema-è davvero il caso di dirlo con chiarezza- non sta nel fatto che gli animali interessati (o capi di bestiame, per usare un termine tanto caro agli addetti ai lavori) possano essere dieci o diecimila, che possano trovarsi a Chions, a Spilimbergo oppure in uno sperduto villaggio nel cuore della Cina; il problema non è se i mezzi atti al trasporto di animali possano sollevare polveri nocive o fastidiose, non sono neppure gli odori che potrebbero turbare la quotidianità, creando imbarazzo alla comunità locale.
Il vero problema, comunque si voglia vedere la questione, è che l'ostinarsi a voler consumare carne passa inevitabilmente attraverso il più grande e cinico sterminio di massa, senza fine, che conta miliardi di vittime ogni minuto, a livello globale.
Per dirlo nell'unico modo che ci appartiene: ostinarsi a non voler vedere ciò che che accade agli animali in questi luoghi di morte è la vera questione.
La soluzione non contempla altro che un'unica strada, senza scorciatoie: smettere di essere i mandanti di tutto questo.
FABBRICHE DI UOVA | Le GALLINE negli allevamenti intensivi
investigazione di essereAnimali
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