martedì 5 maggio 2015

How many times can a man turn his head... - di Rodrigo Codermatz


E' con disappunto, delusione e grande amarezza che, animalista da vent'anni e “dylaniato” da trenta, apprendo la notizia che Bob Dylan si esibirà prossimamente a San Daniele del Friuli ad “Aria di festa”: che io sappia, l'artista americano non si è mai pronunciato o ha preso una posizione sulla questione animalista; ed è forse il caso di ridimensionare anche l'immagine di “cantante di protesta” che gli è stata da subito alquanto stretta e che lo segue come un'ombra da ormai più di cinquant'anni. A dire il vero, negli anni, si è ben espresso inequivocabilmente declinando ogni responsabilità politico-sociale, ogni paternità di uno specifico messaggio:

Protesta”- dichiarava nel 1966- non è una parola mia. Non ho mai pensato a me in questi termini... è una parola da parco dei divertimenti... non ho mai avuto interesse nella protesta, fin dall'inizio... Le canzoni con un messaggio, come tutti sanno, sono un bidone... soltanto i redattori dei giornalini scolastici e le ragazzine sotto i quattordici possono sprecarci il loro tempo... chiunque abbia un messaggio imparerà dall'esperienza che non può metterlo dentro una canzone... 

e, riferendosi alle dichiarazioni di Pete Seeger sulla possibilità che hanno le canzoni di cambiare la gente e aiutare a costruire la comprensione internazionale:

non credo che le canzoni possano cambiare le persone. Non sono Pinocchio... non sono parte di quella storia 

e nel 1984 allo stesso giornale:

non sono uno scrittore di canzoni politiche... la politica uccide e non porta a niente di vivo. La politica è corrotta lo sanno tutti.

Ciò nonostante non si può dimenticare l'attenzione, la comprensione, la compassione verso i meno fortunati, i deboli, i poveri, gli emarginati, le vittime del sistema politico ed economico, della giustizia, dei pregiudizi razziali e ideologici che sottendono molte sue canzoni, facendo della sua arte una cifra e un'alta espressione della contingenza e della sofferenza umana.

Avevo quindici anni quando, appena iscritto al Liceo, gironzolavo per i festini degli amici a Gorizia, chitarra a tracolla, reggi-armonica al collo, zazzera arruffata e berretto alla Huck Finn (proprio come appare Dylan nella copertina del suo primo album o nel famoso articolo di Robert Shelton sul New York Times del 29 settembre 1961 che ne sancì il debutto): mentre i miei amici saltavano e ballavano sulle note di Wild boys dei Duran Duran o Last Christmas degli Wham, io, nell'altra stanza cantavo, per una stretta cerchia di “illuminati e fini intenditori” (sia ben chiaro senza togliere niente a nessuno), di un povero vagabondo sdraiato in un portone, il viso affondato nel freddo marciapiede e un gradino come guanciale, che guarda il mondo dal suo buco per terra aspettando il futuro come un cavallo azzoppato e che morirà nello scolo restando senza nome e senza alcuno che canti il suo lamento (Only a Hobo); o della povera Hattie Carroll, una cameriera nera con undici figli, uccisa, nel febbraio 1963, durante una festa da ballo al Lord Baltimore Hotel di Baltimore nel Maryland, da un colpo di bastone sferratole, dopo averla insultata, dal ventiquattrenne ubriaco William Devereux Zantzinger proprietario di piantagioni di tabacco, le cui amicizie nell'ambiente politico e giuridico gli ridussero la pena ad una multa di 625 dollari e soli tre mesi di reclusione (The lonesome Death of Hattie Carroll)(1); continuavo a chiedere assieme a Dylan “quante orecchie dovesse avere un uomo prima di poter sentire la gente piangere” (Blowin' in the wind).
E come dimenticare The Death of Emmett Till, la vicenda di un quindicenne di colore che nel 1955, a Chicago, aveva osato fischiare ad una ragazza bianca ed era stato massacrato dai fratelli di questa e gettato nel Tallahatchie River: quando la polizia lo ritrovò era talmente sfigurato che lo identificarono solo grazie ad un anello; Train a-travelin' che narra dell'autobus dei Freedom Riders bruciato dal Ku Klux Klan in Alabama; Master of War ispirata dall'ultimo discorso presidenziale di Dwight Eisenhower in cui il presidente metteva in guardia il governo dall'ascesa disastrosa e illegale del complesso militare-industriale; Oxford Town che ricorda i disordini, le morti e i feriti che, nel giugno 1962, accompagnarono l'iscrizione del primo afro-americano (James H. Meredith) all' Università del Mississippi: solo l'intervento di ventitremila agenti federali mandati da Kennedy riuscirono a proteggere Meredith dalle grinfie del governatore Ross Barnett e dagli studenti bianchi; Only a Pawn in Their Game sull'assassinio, nel 1963 a Jackson Mississippi, dell'attivista per la lotta dei diritti civili Medgar Wiley Evers per mano di Byron de la Beckwith, un noto white supremacist filonazista, benestante con grossi appoggi politici che fu poi condannato solo nel 1994: questa canzone fu cantata da Dylan la mattina del 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial a Washington poche ore prima che Martin Luther King   pronunciasse il suo storico discorso “I have a dream”; Hurricane sulla vicenda del pugile di colore Rubin “Hurricane” Carter accusato, nel 1966, assieme a John Artis di triplice omicidio e scarcerato solo nel 1985 quando, ad un terzo processo, vennero scoperte delle irregolarità procedurali nei processi precedenti, dovute evidentemente a pregiudizi razziali.
In altrettante canzoni Dylan denuncia pregiudizi ideologici (Talkin' John Birch Paranoid Blues per cui rifiutò di esibirsi al prestigioso e seguitissimo The Ed Sullivan Show), la disoccupazione (ad esempio la crisi industria mineraria nel Mesabi Range in North Country Blues), l'esasperazione (Ballad of Hollis Brown), la criminalità (Ballad of Donald White), la  rigidità della giustizia (Percy's Song), la guerra (John Brown, With God on Our Side): come dimenticare l'immagine del bambino appena nato circondato da lupi feroci e quella del boia dalla faccia sempre nascosta in A Hard Rain's A-Gonna Fall?
Canzoni, immagini, versi, storie e personaggi con cui sono cresciuto, che hanno accompagnato la mia vita, che hanno in parte guidato la mia sensibilità verso la comprensione, l'attenzione e l'ascolto di chiunque che, per svariati motivi o percorsi della vita, si trovi nel bisogno, nell'incertezza, nella paura o nel dolore: non solo la mia vita ma anche quella di molti miei coetanei, della generazione che mi ha preceduto e di quella che mi ha seguito: Bob Dylan, fino ad oggi, ha parlato a ben tre generazioni.  
L'abbiamo visto cantare alla Magee's Farm di Greenwood nel Mississippi alla manifestazione per il diritto di voto agli afro-americani organizzata dalla SNCC (Student Non-Violent Coordinating Committee) e alla marcia su Washington a fianco di Martin Luther King nel 1963; al concerto per il Bangladesh nel 1971 per aiutare le popolazioni affamate che dal Pakistan orientale si riversarono in India; nel 1985 a ben tre iniziative: il Live Aid Usa for Africa, il Farm Aid nato da un'idea dello stesso Dylan (fatto positivo - scrisse allora la rivista Rolling Stone- che quando Bob Dylan borbotta qualcosa, il mondo ascolti ancora) e Sun City contro l'apartheid.
L'attore Jack Nicholson così presentò Bob Dylan al concerto Usa for Africa a Philadelphia nel 1985: - L'opera di alcuni artisti parla per la loro generazione. Una delle grandi voci della libertà in America, non può che essere lui: il trascendente Bob Dylan!-.

Nel 1966 Bob Dylan dichiarò ad un giornalista:

Non sento la responsabilità, no. Chiunque sia ad ascoltare le mie canzoni, non deve niente a me. Come potrei avere delle responsabilità verso tutte quelle migliaia di persone? Cosa potrebbe farmi pensare che io devo qualcosa a qualcuno che semplicemente è qui? Non ho mai scritto una canzone che incomincia con le parole: “Vi ho riunito qui stasera...” 
Non sono proprio la persona giusta per andare in giro per tutta la nazione a salvare anime... non sono un pastore. E non ho intenzione di salvare nessuno dal suo fato, di cui oltretutto non so nulla

e più tardi nel 1978,

Bob Dylan non è un gatto, non ha nove vite, può fare solo quello che può... Se qualcuno t'innalza ad un livello irreale, è un problema suo. Lui sta solo confrontando il suo io superficiale con qualcosa di irreale. Prima o poi se ne renderà conto, ne sono sicuro... io non sono una figura immaginaria.

Bob Dylan e le sue canzoni fanno parte ormai di un immaginario collettivo trigenerazionale: è un ponte che ci riporta, nella nostra immaginazione, alle lontane lotte studentesche per i diritti civili, alla crisi dei missili a Cuba, alla guerra nel Vietnam, alle segregazioni razziali, al Ku Klux Klan, ai Kennedy, a Martin Luther King, a Malcom X, a Nixon, a Carter, all'Isola di Wight, ai poeti della beat-generation, al Chelsea Hotel dove, ad un'estremità del settimo piano, registi e musicisti si accalcavano da Harry Smith ad ascoltare Highway 61 Revisited o Blonde on Blonde.
Bob Dylan c'era sempre e dappertutto: Bob Dylan! - disse una volta Bono- E' come voler parlare delle piramidi. Cosa puoi dire? Ti fai da parte e resti lì a bocca aperta. 

Ad ogni suo concerto, a comparire sul palco, non è solo quell'ometto con Stetson e baffetti alla Vincent Price vestito da vecchio Medicine man del Far-West: bensì cinquantanni della nostra storia, della storia del nostro pianeta, le ombre di coloro che hanno portato l'espressione dello spirito umano ai suoi massimi livelli nelle diverse arti; egli è, per la sua stessa trigenerazionalità, specchio della nostra cultura: questa è la sua grande responsabilità!
Grande responsabilità anche a livello mediatico, naturalmente: la sua sola presenza fisica è un'ingiunzione storico-culturale e sociale, altroché una figura immaginaria o qualcosa d'irreale! 
La sua presenza ad “Aria di festa” assume un preciso significato e lancia un messaggio che contrasta con i sentimenti di comunanza al dolore, alla sofferenza, all'ingiustizia e allo sfruttamento che molte sue canzoni hanno evocato o fatto addirittura nascere in molti di noi.
Grande amarezza e delusione, dicevo all'inizio, nel constatare che Dylan, evidentemente non è riuscito a tenere il passo sulla strada che egli stesso ci ha indicato ed è rimasto, tutto sommato, sordo e cieco verso altre forme di sofferenza, sfruttamento e morte: quelle delle altre specie animali; questo è il messaggio che l'artista irresponsabilmente ha deciso di comunicare con la sua presenza sul palco di San Daniele del Friuli.
In Blowin' in the wind, Dylan si chiede per quanto tempo l'uomo povrà ancora voltare la testa fingendo di non vedere: dal palco di San Daniele gli sarà impossibile guardar altrove; ovunque girerà lo sguardo incontrerà l'apoteosi della malvagità e della violenza umana su altre specie senzienti; San Daniele del Friuli è una vera e propria Treblinka con i suoi prosciuttifici, quelle monumentali are sacrificali messe in fila come stazioni della via crucis sulla strada per Villanova, pari a castelli o fortezze senza finestre, con le sue vie e vetrine piene di brandelli di carne e pezzi di carcassa: un mattatoio, un cimitero. 
Salendo sul palco egli contribuisce e incentiva direttamente la morte di creature senzienti, promuove e diviene testimone della logica di potere e sovranità, dell'ingordigia e dell'avidità umana: irresponsabilmente, abbiamo detto, e, peggio, acriticamente poiché, io penso, non gli sarebbe stato di grande danno valutare più seriamente e a fondo l'opportunità della sua presenza su quel palco e, in fondo, declinare l'invito degli organizzatori.
Vien da sé che una profonda sensibilità e compassione per la sofferenza altrui non si lascerà mai incanalare in specismi o percorsi ideologici: essa si dà sempre come Stimmung per percorsi di liberazione e affrancamento che concorrono paralleli alla stessa meta e il successo dell'uno sarà il successo dell'altro; l'animale non-umano è il più indifeso e impotente e per questo ci è prioritario dare eco alla sua sofferenza. 
Alla mia grande perplessità circa la totale cecità e indifferenza di questi grandi artisti che hanno saputo cogliere ed esprimere così bene lo spirito umano nella sua precarietà, contingenza, miseria ma anche nella sua capacità di amare, immaginare e creare, si accompagna il mio sogno più grande: che un giorno possano aprire gli occhi, porgere l'orecchio, voltare la testa verso la sofferenza animale e, impugnata la penna, il pennello, la macchina fotografica, la chitarra o la cinepresa farsene espressione.
Questo non deve essere un mio sogno ma una loro responsabilità.

Infine, lo stupore: Bob Dylan, che abbiamo visto far visita a Woody Guthrie al Greystone Hospital di Morristown, a fianco di Martin Luther King alla marcia su Washington, assieme ad Allen Ginsberg sulla tomba di Jack Kerouac a Lowell, che giocò a ping pong con Henry Miller, Bob Dylan immortalato dagli screen test di Andy Warhol e uno dei più grandi poeti americani del secondo novecento, le cui canzoni furono inni per intere generazioni, celebrato e tributato da innumerevoli star della musica e del cinema, da romanzieri e poeti, i cui versi fanno parte ormai dell'immaginario collettivo: cosa ci fa questa icona ad una sagra paesana?
Decisamente irriverente verso la sua stessa arte e immagine presentarsi sul palco di una sagra che, giocando la carta del turismo, dell'ambiente e magari della cultura, va a ingrassare il portafogli di chi campa e gode non solo sui fondi pubblici ma soprattutto sulla pelle di quelle povere creature esposte a pezzi per le strade e nei ristoranti della città: che cultura potrà mai trasmettere questo tipo di iniziative se non quella di mangiare fino ad ingozzarsi, fino ad intasare il cervello in modo che non si ragioni più, in modo che non si riesca più ad immaginare dimensioni diverse da quella che il sistema ci propone, in modo che non ci si renda conto della propria noia, dell'egoismo e narcisismo, del profondo egotismo e menefreghismo che popolano ogni ora della nostra esistenza? Questa è la cornice che la sagra di San Daniele offrirà a Bob Dylan.
Infine, compatisco tutti coloro che abitano a San Daniele del Friuli e la pensano come me: ce ne saranno sicuramente e voglio dire loro che gli riconosco una grande forza di carattere a continuare a vivere in un mattatoio, in un campo di sterminio.
Ovviamente non voglio offendere tutti coloro che correranno a vedere Bob Dylan, magari per la prima volta nella loro vita approfittando anche del prezzo, questa volta veramente popolare, del biglietto; però io, questa volta, non ci sarò e, per citare Dylan, cerco di vivere in equilibrio tra sconforto e speranza, sempre tra questi due fuochi.

                                                                                                              Rodrigo Codermatz

(1) Tra il 1991 e il 2004 Zantzinger fu coinvolto in altri gravi casi giudiziari a danno della comunità afro-americana di Baltimore


lunedì 4 maggio 2015

La nostra nuova campagna affissioni: ‪#‎festadellamamma‬


La festa della mamma è una ricorrenza diffusa in tutto il mondo, celebrata in onore della maternità.
Ed è proprio la maternità al centro della nostra nuova campagna, presente in questi giorni con un'affissione di grandi dimensioni situata in pieno centro città (Via delle Caserme): un'affissione gigante che si pone l'obiettivo di far riflettere sul fatto che l'essere madre non è una prerogativa esclusiva dell'animale umano, bensì di tutti gli animali-umani e non umani.
A tale scopo è stata scelta l'immagine di una mucca da latte assieme al suo vitello, una madre e un figlio simboli di una delle forme di sfruttamento più diffuse nella nostra società. 



Ancora oggi in molti vogliono credere che le mucche producano il latte in maniera del tutto "spontanea e naturale", alla stregua di veri e propri "distributori automatici"; la realtà è che le loro condizioni di vita-e quelle dei loro figli- sono drammatiche e profondamente crudeli.
Le mucche "da latte" sono selezionate geneticamente ed inseminate artificialmente per produrre quanto più latte possibile. Dall'età di circa due anni, trascorrono in gravidanza nove mesi ogni anno.
La lattazione e quindi la produzione è infatti possibile solo dopo la nascita del vitello, che viene separato dalla mucca subito dopo il parto affinché non ne beva il latte. La madre lo cercherà invano per giorni.
Suo figlio, costretto ad una alimentazione artificiale, se maschio verrà macellato entro pochi mesi (le sue giovani carni sono infatti considerate un piatto prelibato) , se femmina trascorrerà alcuni anni, imprigionata in un allevamento, a figliare per produrre latte. In ogni caso, tutti questi animali sono DESTINATI al macello.
Dopo il parto, la mucca ”da latte” produce latte per circa dieci mesi. Negli allevamenti, però, viene nuovamente ingravidata ancor prima che la lattazione finisca, per la massima continuità della mungitura.
Il regime di sfruttamento è molto pesante: dopo quattro-cinque cicli di lattazione con relativi parti di vitelli, la mucca comincia a perdere ”produttività” a causa di malattie come le mastiti, indotte dalla mungitura continua, quasi sempre meccanica, o semplicemente per l’eccessivo sfruttamento. Per l’allevatore è quindi più redditizio mandarla al macello e venderne la carne, sostituendola con un animale più giovane ed ”efficiente”.
Nel mondo reale, nessun allevatore – neppure in un allevamento biologico – potrebbe evitare di uccidere i vitelli maschi, fatti nascere unicamente allo scopo di forzare le mucche a produrre latte.
Per mantenere un numero così grande di ”capi improduttivi” occorrerebbero infatti estensioni di terreno e quantità di risorse tali da rendere fallimentare qualsiasi tipo di allevamento.

La campagna si propone pertanto di porre l'attenzione su tutto questo, ricordando che il dolore che prova una madre nel momento in cui le viene strappato il figlio non è diverso da quello di una qualsiasi altra madre,
e volerci ostinare a credere che non sia così è solamente una menzogna che decidiamo di raccontare a noi stessi per rendere più accettabile lo sfruttamento cui sono sottoposti quotidianamente milioni di animali non umani.
Nessuna menzogna però potrà mai cancellare il dolore inflitto.
Per l'industria del latte è uno scarto - per l'industria alimentare è solo tenera carne - per lei è un figlio.
Buona festa a tutte le mamme.





Per condividere o scaricare il video: TV Animalista

Sperimentazione sugli animali: intervista a Massimo Filippi

disegno di Luigia Marturano
fonte: bastaschiavi.blogspot.it
Ringraziamo Massimo Filippi per averci concesso questa intervista che pubblichiamo con piacere, certi che i suoi interventi in seno al dibattito sulla sperimentazione sugli animali siano sempre un'occasione importante per affrontare una questione che merita attente riflessioni.   

Che si parli di vivisezione o che si trattino altre questioni inerenti all’animalità sembra spesso che non si riesca a superare un dialogo fra sordi che vede il confronto ridotto a sterili slogan.
Da più di un secolo si dibatte sulla questione se la sperimentazione animale sia più o meno lecita eticamente, se essa sia più o meno valida su un piano prettamente scientifico, ma poco o nulla – nei fatti – è cambiato dai tempi del Brown Dog Affair: si è detto quasi tutto ciò che si poteva dire, facendo ricorso anche ad argomenti che dovrebbero avere da tempo innescato un processo di cambiamento, ma che restano nel circuito chiuso del variegato movimento antivivisezionista. Come accade in politica, nelle sedi istituzionali, le tesi contrapposte restano tali; anche dopo estenuanti dibattiti parlamentari, alla fine ciascuno resta della propria idea. Come uscire da questa impasse?


Credo che abbiate toccato due questioni. La prima è che il mondo antispecista nel suo insieme è poco ascoltato dalla società in generale. La seconda è che il dialogo interno all’antispecismo è troppo poco informato e strutturato, troppo naif e fuorviante. Allora, come uscire da queste impasse? Dalla prima, ovviamente, ricordandoci che lo specismo ha avuto almeno 12.000 anni per plasmare strutture economiche e coscienze, ragione per cui dobbiamo continuare a sostenere l’evidente fino a che assuma sufficiente visibilità sociale: gli animali soffrono e muoiono, come noi, e questo sistema di sfruttamento generalizzato dell’“Animale” è insostenibile da qualsiasi prospettiva lo si guardi e va combattuto sul piano politico. Il che, a ben riflettere, risponde anche alla seconda questione: fino a che non saremo in grado di accettare una critica costruttiva, interna al movimento, che permetta di mettere alla prova i nostri argomenti per valutarne la sostenibilità pubblica (le critiche esterne saranno certamente sempre più infide e feroci), continueremo a ripetere dogmi dal vago sapore religioso. Così da un lato rimarremo inascoltati e dall’altro continueremo a perderci in dispute poco fruttuose, se non addirittura dannose. Dispute che certo non faciliteranno l’incontro.

“La vivisezione è un metodo di studio e ricerca consistente in operazioni di dissezione effettuate su animali vivi e privi di anestesia. Il termine è usato come sinonimo di sperimentazione animale dalle organizzazioni che si oppongono a tale sperimentazione, questo uso tuttavia è considerato strumentale e improprio dalla comunità scientifica. La stessa opinione pubblica infatti reagisce in modo diverso e le risposte cambiano radicalmente a seconda che gli si chieda se è contro la vivisezione o se è contro l’impiego degli animali nel progresso della medicina. Per questo motivo coloro che svolgono ricerca utilizzando i modelli animali contestano tale equivalenza semantica”. Questo alla voce “vivisezione” secondo Wikipedia. È importante, a tuo avviso, questa equivalenza semantica? Se sì, perché?

Non mi pare che ci troviamo di fronte a una questione semantica ma all’orrore estremo. Tradotto: abbiamo così tanti buoni argomenti contro la sperimentazione sugli animali che non vale la pena lasciarsi distrarre da aspetti in qualche modo marginali. Anzi, i nostri argomenti sono così inattaccabili – non abbiamo alcun diritto a far soffrire e uccidere chi può soffrire e può morire – che possiamo anche concedere questo presunto “vantaggio” ai nostri detrattori, se pensano di cavarsela così facilmente. Cambiare una parola non basta a cambiare i connotati di una delle più odiose pratiche di dominio. Il problema è che, evidentemente, molt* animalist* non hanno ancora compreso appieno la forza dirompente dell’antispecismo e, seppur in buona fede, lasciano nelle mani di chi compie sperimentazioni sugli animali la decisione sull’agenda e sugli argomenti della discussione. Penso che quanto detto rifletta la pervasività dell’antropocentrismo: ci impegneremmo in simili battaglie semantiche se avessimo a che fare con la sofferenza e la morte di umani? Passeremmo amabilmente il nostro tempo a decidere se è meglio usare il termine “tortura” o quello di “interrogatorio particolarmente violento”?

Secondo notizia di questi giorni è stata certificata la validità dell’oltre un milione di firme raccolte dai promotori dell’iniziativa Stop Vivisection. Nei prossimi tre mesi le organizzazioni promotrici della campagna saranno invitate a Bruxelles per dare voce alle loro idee, accompagnate da scienziati e giuristi a sostegno della propria causa. La Commissione dovrà poi decidere se e in che modo potrà procedere per rendere l’iniziativa una proposta di direttiva, cosa non scontata. Cosa aspettarci da questo passaggio istituzionale?

Rispondo a questa domanda con un’altra domanda: siamo d’accordo che senza lo sfruttamento animale non esisterebbe la struttura economica e sociale in cui viviamo? Se sì, pensiamo davvero che un milione di firme avranno una qualche rilevanza politica e potranno portare a qualche risultato effettivo, tangibile, visibile? Certo, questa iniziativa è un bell’esempio di testimonianza, un bell’esempio che mostra quante persone accettino di mostrare pubblicamente il proprio lutto per la morte degli animali. E sarebbe stata ancora più bella se non fosse stata infarcita di argomenti indiretti. In quanto a giuristi e scienziati: non mi pare che il Diritto, la Legge e la Scienza siano così favorevoli ai non umani. Di cosa parleranno, allora, questi giuristi e questi scienziati ai politici e ai burocrati di Bruxelles? Del dolore animale o, ancora una volta, degli interessi degli umani? Pensiamo davvero che supereremo il paradigma antropocentrico ribadendone continuamente le ragioni e la struttura?

Lo schieramento antivivisezionista è ancora lacerato al suo interno e si fatica a trovare un punto di equilibrio (se mai ce ne possa essere uno) fra le tesi etiche e quelle scientifiche. Si riuscirà mai a trovare unità nella lotta alla vivisezione?

Spero di sì. Ma qui bisogna chiarirsi. Stiamo parlando di un movimento politico liberazionista o di un gruppo di metodologi della scienza? Perché, se vale la prima opzione, allora le tesi non possono che essere etiche e politiche: la critica alla sperimentazione animale è parte di una critica più ampia alla mercificazione biocapitalista dei corpi e allo sfruttamento/controllo della nuda vita, in cui sono presi sia gli animali umani che gli altri animali. Se invece vale la seconda, ossia si tratta di un gruppo di scienziati che per motivi d’ordine tecnico, cioè ancora umano, troppo umano, si oppongono alla sperimentazione sugli animali, non possiamo che invitarli a partecipare a tutte le attività della scienza (andare in laboratorio, fare esperimenti, pubblicare, trovare cure, vincere concorsi universitari) e sperare che poi siano così efficaci da convincere i loro colleghi a sospendere questa pratica in quanto inutile o dannosa. In seguito, al pari di tutti gli altri cittadini, potranno o meno unirsi a noi, ossia ad un movimento politico liberazionista, per rifare il resto del mondo, dagli allevamenti ai mattatoi, dagli zoo ai circhi, ecc., ecc., ecc.

In un’Europa sempre più indifferente alla sorte dei più deboli (umani e non umani) è possibile credere ancora in un progresso morale della nostra civiltà che possa coinvolgere anche gli animali prigionieri negli stabulari?

Che fare altrimenti? Andiamo tutt* a casa a vederci un bel programma di intrattenimento televisivo? Questa sfiducia è la presa d’atto della forza del potere o è lo stratagemma del potere per accrescere la sua forza e la nostra disperazione?

Mors tua, vita mea” è l’argomentazione più utilizzata a difesa della sperimentazione animale. Una questione che in molti considerano insormontabile e che, forse per questo motivo, scelgono di saltare a piè pari. Il fatto di non affrontare un nodo così importante della questione crea un vuoto incolmabile che spesso viene eluso aggrappandosi, come ultima spiaggia, alle argomentazioni dell’antivivisezionismo scientifico (AVS) per poter controbattere. Come ti poni tu di fronte a questa questione?

Credo di aver già risposto a questa domanda in più occasioni, sia verbalmente che per iscritto (cfr. www.liberazioni.org). In breve, “mors tua, vita mea” equivale a dire che il più forte prevale sul più debole.
Che argomento è questo? L’argomento secondo cui sarebbe la forza a creare il diritto. Milioni di umani sono morti sotto i colpi dell’ideologia del più forte e stanno morendo tuttora. Miliardi di animali sono morti e stanno morendo per la stessa ragione. E io dovrei dimenticarmi di tutti questi morti, di questa immane sofferenza, per dire al più forte che la sua ideologia va solo un po’ abbellita, ritoccata qua e là, resa più umanitaria? No, non credo di poterci riuscire. Ho troppo rispetto per le vittime, non intendo offenderle una seconda volta.


In più occasioni sei andato a parlare di sperimentazione animale all’interno degli atenei, ritrovandoti a discuterne direttamente con chi ne ha fatto una professione. Una scelta, la tua, che è stata criticata da alcuni anche ferocemente. Sono volate accuse molto pesanti; sei stato accusato di scendere a patti “con il nemico”, c’è chi è arrivato persino a ricorrere alla calunnia, tacciandoti di essere tu stesso un vivisettore. Partendo dal presupposto che riteniamo tu non debba alcuna giustificazione di fronte a simili insinuazioni, ci interessa capire le motivazioni che ti hanno spinto ad affrontare questi temi con chi di fatto (ci preme sottolineare che non stiamo esprimendo una valutazione sulle singole persone, bensì prendendo atto delle tragiche conseguenze del loro operato) rende oggi la sperimentazione animale una realtà concreta e tangibile, con tutta la sua portata di disperazione. Qual è il fine – se di fine possiamo parlare – che immagini? Ritieni sia possibile smuovere la macchina agendo direttamente sugli ingranaggi – e chi li guarda e li studia con la speranza di diventare ingranaggio a sua volta – per rimettere in discussione la macchina stessa?

Premesso che ho partecipato a quattro incontri di questo genere e che solo due si sono svolti in sedi universitarie, e che non ho parlato di sperimentazione sugli animali, ma delle ragioni etiche e politiche che mi spingono a condannarla senza riserve, lo sapete che a tre di questi quattro incontri hanno partecipato anche esponenti di primo piano dell’AVS? E che costoro, giustamente, non sono stati accusati di scendere a patti con il nemico né di essere dei vivisettori?
Quindi, il problema è un altro: c’è chi è così poco abituato a discutere criticamente da confondere il bersaglio della propria polemica, andando ad attaccare chi prova a scardinare dogmi che trovano la propria “forza” solo nella ripetizione rituale e sta cercando, muovendosi su un piano etico e politico, di sviluppare, pur con tutti i suoi limiti, una critica radicale alla sperimentazione sugli animali. Poi, i social media fanno il resto: tu scrivi interi saggi, documentandoti per mesi, e c’è chi ti “risponde” in due secondi e con quattro parole. Detto questo, passo alla vostra domanda principale: a che pro? Penso che parlare all’interno delle istituzioni dove si pratica la sperimentazione sugli animali, e non alle singole persone, per portare nella sfera della dicibilità pubblica l’orrore che lì si compie ogni giorno, sia un gesto di conflittualità squisitamente politico e – lasciatemi aggiungere – coraggioso. Proprio perché l’opposizione alla sperimentazione sugli animali non può che essere politica, non vedo altra soluzione che rimboccarsi le maniche e metterci la faccia, scendendo, senza timori, nell’agorà. Con gli argomenti giusti. Per alimentare, attraverso questi “incontri”, un dibattito effettivo all’interno dell’istituzione scientifica, un dibattito che, ignorato fino a pochi anni fa con un’alzata di spalle, pare oggi essere dotato di un certo grado di “contagiosità” almeno per la società civile che sembra essere sempre più attenta alla questione e che, auspicabilmente, dovrebbe sentirsi chiamata a contribuire ad indirizzare gli sviluppi della scienza (il suo senso, ciò che può o non può fare, il suo destino e i suoi fini). O pensiamo di risolvere il problema parlando fra di noi, immaginando di essere un circolo di epistemologi, in una sorta di bolla spazio-temporale, nascosti dietro pseudonimi e gli schermi dei nostri computer e dei nostri telefonini?


Noi e loro, buoni e cattivi, animalisti e antispecisti buoni, vivisettori (ma non solo) cattivi: spesso “gli animalisti”, “gli antispecisti”, “gli...”, vengono accusati di giudicare “gli altri”, di voler imporre la “loro (nostra) verità”, di considerarsi (ci) superiori rispetto ai più. Sappiamo bene che dietro a queste accuse si nasconde il desiderio di interrompere un possibile dialogo, sfuggendo soprattutto al peso di sentirsi in qualche modo obbligati ad affrontare le questioni (vitali) che vengono poste. Eppure questa percezione ha anche altri perché e, a chiudere il cerchio, rigettando le colpe su “chi non (ci) capisce” si rischia di compiere la stessa operazione. Esiste veramente un “noi” e un “loro”? È possibile pensare e ripensarci senza creare nuove – contraddittorie – distinzioni, dove il noi e il loro viene riproposto all’infinito? Forse per re-imparare a “sentire con” (prima ancora quindi di poterne parlare) serve veramente disimparare il linguaggio umano dominante, una lingua che ci ingabbia impedendoci di pensare, agire e, prima ancora, percepire? Aprirci alla molteplicità di lingue esistenti, dislocanti, perturbanti e in grado di inserirci in un piano di immanenza è base imprescindibile al dialogo?


Vi siete già risposti. Essere antispecisti non basta. Sottolineare la presunta purezza ascetico-sacerdotale dell’antispecismo è politicamente controproducente oltre che fattualmente sbagliato. Posso solo aggiungere che la logica dell’utile/inutile (per l’Uomo) e la scienza biocapitalista, da cui molti animalist* non mi pare prendano le distanze, parlano il linguaggio del noi e del loro. Il linguaggio dell’identità, della purezza, del disconoscimento dell’Altro.



Massimo Filippi, professore di Neurologia presso l’Università “Vita e Salute” di Milano, si occupa da anni della questione animale da un punto di vista filosofico e politico. È redattore di Liberazioni. Rivista di critica antispecista (www.liberazioni.org). Ha pubblicato Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte (Ombre corte 2010), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la letteratura (con F. Trasatti, Mimesis 2010), I margini dei diritti animali (Ortica 2011), Natura infranta (Ortica 2013), Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio (con F. Trasatti, Elèuthera 2013) e Penne e pellicole. Gli animali, la letteratura e il cinema (con E. Maggio, Mimesis 2014). Tra gli altri, ha curato l’edizione italiana di Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto di Charles Patterson (2003), Fenomenologia della compassione. Etica animale e filosofia del corpo di Ralph R. Acampora  (2008), Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida di Matthew Calarco (Mimesis 2012) e Manifesto queer vegan di Rasmus Rahbek Simonsen (2014). Sono in corso di pubblicazione: Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (con M. Reggio, Mimesis) e Sento dunque sogno (Ortica).









Approfondimenti tratti da Liberazioni- Rivista di Critica Antispecista:


Penso di sì-Risposta all'articolo di Stefano Cagno, L'antivivisezionismo scientifico è controproducente? 

venerdì 1 maggio 2015

Corso di cucina vegan a Pordenone a cura degli ORANGE CHEFFES



MARTEDI' 19 MAGGIO
ANTICIPO D'ESTATE: per la prima volta al Farfabruco l'anticipo della statgione più bella e più calda. Un menù fresco, stuzzicante, ricco di sapori e profumi che solo la magica estate sa regalare e ci regala.

MARTEDI' 16 GIUGNO
SOLO CRUDO: il piacere di assaporare una cucina nuova, uno stile di vita diverso, dove l'essenza e la nutrizione vengono rispettate al 100%. Per capire, per cambiare, per sentirsi finalmente liberi.

inizio dei corsi alle ore 19.45 presso
Asilo Nido “FARFABRUCO” 
in Viale Treviso 4, Pordenone
INFO e COSTI: giacomo.forato@libero.it 
3936100828 dopo le 18.30