martedì 29 dicembre 2015

Esplodere un petardo - di Rodrigo Codermatz


E' sempre un piacere ospitare Rodrigo Codermatz sul nostro blog. Questa volta Rodrigo fa alcune importanti riflessioni sulla questione dei botti di capodanno, argomento più che mai attuale e molto dibattuto proprio in questi giorni, anche nella nostra regione.   

Un aspetto della mercificazione e della reificazione totale della nostra società e del nostro tempo è l'assoluto e acritico alienare il cambiamento, il progresso e lo sviluppo da noi stessi e relegarlo e confinarlo nel mondo delle cose: ossia siamo giunti al punto di intendere e perseguire il miglioramento solo riguardo all'utilizzabile, all'oggetto di consumo o ad uno stato o assetto in cui noi ci ritroviamo gettati.
Nel primo caso abbiamo il comfort, nel secondo una posizione: da una parte foraggiamo i tecnocrati, dall'altra i produttori.
In entrambi i casi noi ci auto-estromettiamo dalla facoltà di cambiare perché nella tecnocrazia ci affidiamo ciecamente agli specialisti, alla tecnica, alla ricerca, nella produzione agli alti e bassi del mercato.
In sostanza oggetto o apparecchio tecnologico sempre più confortevole e prestante e successo sono oggi gli unici metri per misurare sviluppo e progresso umano per la persona media: quando abbiamo l'ultima tecnologia in mano e un bel posto sotto il sedere, siamo tranquilli e la nostra preoccupazione più grossa è ottenere o mantenere questo assetto conveniente.
Il progresso è l'entropico assestarsi delle condizioni in cui ci ritroviamo e noi ci giriamo e rigiriamo cambiando fianco e aggiungendo cuscini per dormire meglio; sì, perché è proprio un letargo questo nostro accomodarci e convivere con la massima tecnologia da una parte e la ruota di pietra di molte nostre abitudini, consuetudini e tradizioni dall'altra: queste si ripresentano ritualmente nella loro periodicità e immortalità e non c'è la più lontana speranza che possano essere messe in questione da parte nostra. Tradizioni e abitudini che ci bloccano con i loro tentacoli, non ci lasciano andare ma ci trattengono a sé: e mentre il mondo nei suoi distruttivi e catastrofici brancolamenti sta ormai rantolando e parla alla nostra coscienza, noi continuiamo miopi e sordi a gingillarci in primitive usanze e in comportamenti infantili.
Che dire allora oggi, alla vigilia delle festività, ad un uomo, un padre, un adulto, che si appresta ad acquistare dei botti e dei petardi quando gli si continua insistentemente a ripetere che son dannosi e mietono ogni anno vittime e gravi menomazioni tra uomini e animali?
Che dire se non invocarlo per l'ennesima volta di crescere e maturare, di rendersi finalmente consapevole e responsabile dei suoi comportamenti, di dedicarsi a qualcosa di più edificante, di dare un seppur minimo contributo ad uscire dalla più completa barbarie e inciviltà; poiché se ad un individuo viene detto che un comportamento è pericoloso e nocivo e continua imperterrito nel suo vizio è evidente che lo fa perché non crede che la disgrazia gli possa capitare in prima persona: lascia, in poche parole, che a farsi male siano gli altri.
E se è un genitore, a maggior ragione lo pregheremo affinché presenti ai figli un modo diverso di vivere, di giocare, di divertirsi, festeggiare, un modo diverso di approcciarsi e rapportarsi al mondo e ai suoi inquilini.
Ma abbiamo visto prima quanto l'individuo sia refrattario al cambiamento, come spesso deleghi l'evoluzione e lo sviluppo solo a dei processi senza coinvolgere anche la scelta personale; e a lavarsi le mani sono soprattutto coloro che, al contrario, dovrebbero responsabilizzare ed educare e che ora si aspettano forse la mia filippica contro venerabili e dinastiche usanze: no! La storia serve l'ideologia e la tradizione mentre noi dobbiamo invece guardare al nostro presente, rompere con il passato e abbozzare nuove traccie e traiettorie; non è importante avere esempi ma essere esempi e la nostra storia e la nostra cultura non possono esserlo. Il nostro passato ci ha tradito e non ha parlato come doveva, fino in fondo!
Chiediamoci, invece, che gusto c'è nell'esplodere un petardo.
Molti come me non l'hanno mai fatto neppure da bambini perché non erano interessati, forse ne erano impauriti o preferivano altre forme di divertimento; altri lo continuano a fare anche da adulti ammettendo che “fare i botti e tirar petardi” gli ricordano le vacanze di Natale della loro infanzia quando si aveva il permesso di uscire e stare un po' di più con gli amici; soprattutto il piacere di stare in compagnia, di fare “gruppo”; il “fare i botti” era il momento in cui la “banda” riusciva finalmente a riunirsi e aveva un senso perché lo si faceva assieme, in gruppo: farlo da soli e isolatamente non aveva alcun senso, non c'era nessun gusto.
Rifacendolo ora con i figli è come coinvolgere questi nella propria infanzia e in questi riprenderla affinché si annulli lo iato generazionale e rimanga infine un vissuto di continuità.
Pratica “tribale” di appartenenza ad una banda, come primitivo istituto normativo e processo invasivo di socializzazione forzata che emargina ogni possibile rimanere soli nella più propria possibilità, che prende forza dal necessitarsi reciproco di tante individualità insicure o disattese che spesso sfocia in impulsi compensatori che possono andare dall'eccitazione a una scarica di tensione, come la risata isterica dopo un forte e improvviso spavento (effetto montagne russe), al piacere di “aggredire” l'altro a sorpresa, al vero e proprio sadismo o ancora al piacere di mettere sotto-sopra l'ordine del silenzio, smuovere l'aria con un treno impazzito di urti sonori, piacere di esplodere e riverberarsi in mille eco, disperdersi nel mondo tra gli altri, brivido dell'inatteso e dell'improvviso: potremmo a pieno titolo iscrivere questo fenomeno nel “bullismo” quale sco-ordinata e disorganizzata forma di incanalare e intenzionare l'innata pulsione al movimento (la nostra originalità), al cambiamento, a modificare noi stessi: spreco e improduttivo investimento di forze che potrebbero essere altrimenti espresse in creatività o pensiero dialettico e invece si manifestano spaventando, terrificando, nuocendo, ledendo, uccidendo (sottolineo sempre il carattere cruento e necrofilo della nostra società).
Pulsione al movimento e al cambiamento che la cultura, tramite la sua ancilla, la tradizione, deforma o reprime in noi ma che noi, al punto di sviluppo e progresso di cui andiamo tanto fieri, dovremmo saper sublimare diversamente, con maggiore responsabilità e senso critico e soprattutto col dovere morale di chiederci se tutto ciò può essere inteso come accettabile anche nella società non umana che noi, con queste pratiche, lediamo.
Invece più che mai in questi giorni, in risposta alla campagna “No ai botti di Capodanno”, si moltiplicano su Facebook pagine e profili che inneggiano e istigano alla violenza sugli animali soprattutto domestici con frasi del tipo “esplodi un cane salva un petardo”contro i quali non si può fare niente poiché “la pagina risponde agli standard di comunità di Facebook”.  
L'immaginario violento che vi si ritrova mi riporta alla mia infanzia, alla mia banda, o per meglio dire alla banda di mio fratello maggiore alla quale io non appartenevo se non come suo fastidioso fardello, in cui la vecchia storia (leggenda metropolitana) di aver sventrato un gatto con un petardo era una vanteria per poter assurgere al comando della banda: per fortuna, che io sappia, nessuno l'aveva e l'avrebbe mai fatto.
Un'aggressività tipicamente epistemofilica, cifra metonìmica di una condizione regressa in cui nell'individuo convergono da una parte un'aggressività volta contro la società che lo abbandona e dall'altra un'aggressività contro la stessa società che l'ha reso regolare, normale, pulito, puntuale, che lo obbliga a ritenere e sublimare, a procrastinare, una società che “evira”; epistemofilica perché quest'aggressività non solo vuole appropriarsi della società ma anche sventrarla.
Purtroppo spesso tale aggressività non rimane confinata nei seppur pericolosi deliri di veri e propri poveri mentecatti e balordi che Facebook protegge e lascia vaneggiare; sotto diverse forme ricompare  in ogni angolo della nostra città, sullo schermo, per strada, nelle scuole: per esempio, tra i vari modi di rielaborare e rendere socialmente accettabile notevoli quantità di aggressività e sadismo è farne uno sport o una tradizione come, ad esempio, quella dei “botti di Capodanno”.  

                                                                                  
Rodrigo Codermatz

lunedì 21 dicembre 2015

Morire dentro lavorando...per sport

Butteri con vacche maremmane negli anni 50
foto: 
Wikipedia


"World Association for Working Equitation" è un'associazione che promuove la competizione sportiva tra stili tradizionali di monta da lavoro usato in diversi paesi.

Messaggero Veneto, 20 dicembre 2015


Il cerchio si chiude.

Dal cavallo domato con metodi coercitivi e spesso brutali per fini principalmente agricoli o comunque di utilità antropocentrica, all'equitazione sportiva, passatempo per ricchi e potenti annoiati, con addestramenti via via sempre più "dolci" nella forma ma ancora più brutali nel condizionamento psicologico.

Nella Working Equitation è il peggio dei due mondi che si unisce: un addestramento sottile (per dormire bene di notte, certo!) ma un condizionamento che riduce il cavallo ad una caricatura impotente e che richiede allo stesso tempo performance di precisione, ma finimenti e monte che per qualche insano desiderio dell'uomo, devono richiamare quelle dei "nostri antenati" che lavoravano la terra o dominavano il bestiame.


Tori con mandriano in Camargue
foto: Wikipedia


Tutto questo castello costruito sullo sfruttamento, lascia uno strascico di domande: in primo luogo, cosa vogliono i cavalli?
Inoltre, perché far pagare loro il prezzo delle psicosi identitarie dell'uomo?

Andrea Gaspardo per AFVG 

sabato 19 dicembre 2015

La funzione pedagogico imperial-specista del giocattolo - di Rodrigo Codermatz

Diamo il nostro affettuoso benvenuto a CaVegan, il blog degli amici Rodrigo e Tamara,
pubblicando questo interessante e -considerata la prossimità alle feste natalizie- calzante approfondimento di Rodrigo, ringraziandolo per averci concesso di ospitare queste riflessioni
anche sul nostro blog.
Buon lavoro a CaVegan da tutti noi!



La funzione pedagogico imperial-specista del giocattolo
di Rodrigo Codermatz


Fonte: https://cavegan.wordpress.com/2015/12/14/la-funzione-pedagogico-imperial-specista-del-giocattolo/


Passeggio per la città e osservo la vetrina di un negozio di giocattoli: una linea di una nota marca riproduce modellini delle più invasive e perniciose attività umane volte allo sfruttamento e alla morte animale; ecco allora pescatori in un tranquillo fiume canadese, scene di caccia alla marmotta, safari africani e poi molte realtà quotidiane come lo zoo, il circo, il campo cinofilo e l’addestramento dei cani, c’è addirittura il bracconiere in quad. Più in là il maneggio e, infine, la ciliegina sulla torta: un allevamento con le mucche costrette alla mangiatoia.


Mi rendo conto più che mai che la società ha scelto per il bambino il suo nuovo debole: l’animale va sostituendo pian piano il povero indiano delle nostre vecchie scorribande nei campi o per le vie del paese vestiti da cow-boy.

Osservo bene questi giocattoli con incredulità: stiamo mettendo nelle mani dei nostri bambini affinché ci giochino, presentiamo alla loro fantasia e immaginazione degli allevamenti, dei maneggi, delle battute di caccia, dei safari, dei delfinari, dei circhi, degli zoo! Ma abbiamo a cuore le loro vite, il loro futuro o lasciamo che il sistema ce li trasformi in automi devastatori, distruttori, in veri e propri serial-killer?

Ci rendiamo conto cosa vuol dire far giocare un bambino con un allevamento, con una serie di mucche messe in fila come rotelle di un ingranaggio? Ci rendiamo conto cosa vuol dire trasformare in gioco un’incursione venatoria in una foresta tropicale, la cattura e la deportazione se non la stessa uccisione in loco di diverse specie animali? L’imprigionamento di specie abituate a muoversi, nuotare e volare in uno spazio di centinaia di chilometri ci è presentato ideologicamente come gioco educativo o “tradizione” ma in realtà è vero e proprio messaggio subliminale che rivendica la podestà umana sull’animale.


Questa specie di giocattoli e di mercato è in parte una cifra della crisi del ruolo del genitore nella nostra società, un genitore che svaluta e semplifica sempre più le sue funzioni educative lasciando che la società veicoli e controlli le inclinazioni e la personalità del bambino; un genitore acritico, superficiale, disattento (quante volte compra senza pensare?), per nulla lungimirante, suggestionabile, immaturo, tutto preso a far sì che il figlio “si faccia strada”, primeggi, eccella, si distingua dagli altri: questa logica combacia in fin dei conti con la logica degli allevamenti e dei circhi e fa del bambino uno status symbol quale l’automobile, la casa, le vacanze, o un mezzo di rivalsa su se stessi, sulle proprie frustrazioni e sugli altri in un rapportarsi sempre più competitivo.


Questi giocattoli entrano nell’ambiente del bambino, nel suo cassetto, nella sua cesta, nella sua stanza, e assumono subito, come d’altronde tutte le cose che abitano l’infanzia, un’indelebile funzione mitologico-pedagogica con un messaggio ben definito; un messaggio dittatoriale, che non ammette repliche, a-dialettico che impone una certa visione della realtà.

Attorno a questa materialità pedagogica si istituisce un’architettura del trovarsi gettato che prende corpo e si incarna nel bambino: è la trans-substantiatio ossia la conversione dell’ambiente nel corpo che segna sempre un ritardo, un’isteresi, come disse Sartre parlando di Madame Bovary di Flaubert, uno scarto biologico sull’emergenza del reale.(1)

Quand’ero bambino i nostri nonni ci parlavano del re Vittorio Emanuele III ch’era stato sul campanile del nostro paese, di Churchill e del suo sigaro, di Stalin, vedevamo film in bianco e nero sulla Seconda Guerra Mondiale, su Hitler e il nazismo: questa era la guerra che noi incorporavamo e i nostri soldatini erano tedeschi, inglesi, francesi, russi, giapponesi e italiani; nella nostra guerra non c’era la bomba atomica né il Vietnam e neppure il terrorismo, troppo attuali, ma neanche le foibe, i titini e i partigiani, troppo vicini, e l’Africa entrava nei nostri giochi solo grazie agli elefanti o rinoceronti in gomma e Tarzan. Una guerra di armi convenzionali, battaglia corpo a corpo, di trincea e non di rifugi antiatomici, “guerra di confine”, “invasione” territoriale tra confinanti: non conoscevamo il colonialismo e lo sfruttamento.

La guerra che l’ambiente m’aveva fatto metabolizzare e incarnare era quella che mio padre visse in prima persona, quando, a sua volta, giocava agli indiani e cow-boy o alle guerre Napoleoniche e prussiane: mio padre non giocò mai alla Guerra Mondiale.
Questo scarto temporale, questo “deposito” (come si dice di un vino) è l’anima (come quella dell’aceto) che nella trans-substantatio si incarna in noi e diviene ideologia.
Veri e propri strumenti ideologici, i nostri giochi infantili influenzano ora emotivamente e affettivamente la nostra capacità media di comprendere entro il concetto di guerra anche i conflitti “periferici” del terzo mondo o del sud-est asiatico e, non avendo metabolizzato l’imperialismo e il colonialismo, siamo ancora incapaci di inserire un episodio terroristico in un quadro bellico più vasto, in un quadro di sfruttamento, estorsione, ed estromissione.
E in questi giorni ne vediamo il risultato: la nostra generazione è cresciuta credendo e vedendo la guerra solo come una questione occidentale; esiste solo se colpisce l’Italia, l’Inghilterra, la Germania o la Francia; la guerra nelle altre zone non esiste (o per lo meno, questo è il nostro vissuto), rimane ai margini del nostro sguardo, del nostro interesse, della nostra preoccupazione.
Le istanze culturali del nostro ambiente si fissano in noi come sguardo e visione sul mondo, fornendoci uno scenario virtuale in cui ci muoviamo a nostro agio relegando queste realtà periferiche nell’intravisto, nello “sfocato”.


Così il cacciatore in quad, l’allevamento o il maneggio, passando per le mani del bambino, gli insegnano una volta per tutte cosa si deve fare dell’animale: e qual è il messaggio di questi giocattoli per il bambino? Semplicemente che l’animale va rinchiuso, munto, sellato, trasportato, esibito, educato, macellato proprio come i nostri giochi ci dicevano che l’indiano è cattivo, che va stanato, rincorso, ucciso o catturato e rinchiuso in una riserva.
Questi giocattoli trasfigurano e distorcono la natura dell’animale strappandolo al suo habitat e inserendolo nel processo produttivo ed economico umano: diventano strumenti dell’ideologia specista e antropocentrica; veicolano un interesse, sono in malafede tanto quanto la mucca di Heidi, poiché, anche se a differenza di questa mostrano al bambino la situazione più o meno reale in cui vivono le mucche, al contempo lo informano che è giusto così, e l’informazione diventa imperativo.

Ricordo le confezioni in cartone con foreste equatoriali o paesaggi canadesi: era più bella la scatola del giocattolo; tolta questa restava l’animaletto che noi facevamo muovere sulle piastrelle o sul pavimento in parquet e perdeva tutta la sua poesia. Ora le piastrelle sono entrate nella confezione dove asettici laboratori e nude e fredde stalle fanno da scenario a una fila di mucche.
Eravamo liberi di prendere l’elefante e farlo volare, con lui toccavamo le cose, esploravamo il mondo, lo facevamo seguire una traccia del tappetto o entrare in una macchia d’acqua, lo mettevamo all’ombra di un geranio in terrazza: oggi il gioco ha delle regole ben precise, e per definizione la mucca deve rimanere immobile e costretta alla mangiatoia imprigionata da due grate d’acciaio.

Il messaggio specista veicolato in questi giochi – l’animale va sequestrato, rinchiuso, sfruttato, torturato e ucciso a fini umani – oltre che riprodurre lo specismo, si inserisce in un programma ben preciso che ha come obiettivo l’allineamento emotivo del bambino con l’adulto e la società a cui appartiene. Il bambino deve essere allontanato per forza dal suo rapporto empatico-soggettivo-fantasioso con l’animale, rapporto di tenerezza e compresenza, e avvicinato almeno parzialmente alla funzione e posizione che questo ha nel mondo oggettivo degli adulti: essere una cosa.

Scrive Bruno Bettelheim:

“I bambini hanno una naturale affinità con gli animali e spesso si sentono più vicini a loro che agli adulti, nel loro desiderio di condividere la facile vita, di libertà istintuale e di godimento, dell’animale. Ma a questa affinità si accompagna anche un’ansia del bambino: quella di non essere forse perfettamente umano come dovrebbe essere.” (2)

L’allevamento o il maneggio e gli altri giocattoli simili, anticipando dei modi di attività caratteristici dell’età adulta (3) e imitando l’adulto e il suo mondo, creano situazioni-modello per il controllo della realtà, fungono da esperienza e da cauta pianificazione dell’avvicinamento alla realtà sociale e all’immagine che questa ha dell’animale.
Questi giocattoli facilitano il compito del genitore nel presentare la realtà traumatica dell’animale al figlio ancora “empatico”: spiegano in vece sua al figlio il triste destino dell’animale e gli mostrano cos’è un allevamento, allontanando definitivamente la possibilità di un incontro proto-etico e deresponsabilizzando il genitore.

Al bambino quindi è richiesto di metabolizzare la realtà produttiva che per eccellenza sfrutta e uccide l’animale, l’allevamento, in cui l’animale diviene ruota di un meccanismo, oggetto algebrico, astrazione, perimetro, processo, serialità: e in questo i genitori svolgono la loro funzione di conferma presentando l’animale nello zoo (serialità delle gabbie, delle specie e degli habitat), nel circo (serialità della performance), nella fattoria didattica (serialità dell’addomesticamento dove l’animale è presentato nella sua manipolabilità), nel negozio di animali e nel commercio di animali di razza (serialità dell’allevamento) e infine negli scaffali del supermercato (serialità dell’animale come carne confezionata).
Serialità che ben si accorda con la richiesta di ritualità del gioco come ricerca di punti di appoggio e di presa sul mondo dell’adulto semplificato in pochi gesti ripetitivi (pensiamo al fascino del fare il chierichetto in molti bambini che poi diviene una componente importante nella fede dell’adulto).
Il gioco come metabolizzatore inscrive quest’immagine dell’animale come oggetto seriale nella formazione dell’io tecnico-manipolatore.
Nel gioco c’è alla fine un incontro di questi due percorsi, tra il bambino e l’adulto, e un corrispondere e allinearsi reciproco sul piano emotivo: per questo, potremmo dire assieme a Erik H. Erikson che “il gioco è una funzione dell’io, un tentativo di sincronizzare i processi sociali e fisici alla propria individualità”:(4) così “nel piccolo docile mondo dei giocattoli”, che Erikson chiamava microsfera, il bambino costruisce il proprio io inserendovi anche l’animale in gabbia e l’allevamento.

Se il messaggio di partenza che i genitori, l’ambiente e la cultura danno al bambino è che l’allevamento è normale e necessario perché fa parte del mondo adulto, il giocattolo rafforza il messaggio divenendo vera e propria funzione sociale ossia una modalità di rapporto con l’altro, una struttura comunicativa dell’intersoggettività come allineamento, consenso, pensiero unidimensionale che metabolizza e rielabora socialmente lo sfruttamento animale e lo riproduce: il gioco diviene, insomma, quella zona di rifugio che squalifica ed esorcizza il male annientando definitivamente l’animale.
Il giocattolo non forma quindi solo il bambino ma la società stessa, costringe la realtà nelle sue forme: i giochi diventano modelli di realtà e, in questo caso, contribuiscono a far sì che l’adulto di domani non vedrà una mucca che in un contesto zootecnico.

I genitori hanno perciò una responsabilità non indifferente nello scegliere il giocattolo da acquistare e mettere nelle mani del loro bambino e già per troppo tempo hanno scelto fucili e pistole.
In una società, che si sta connotando infantilmente e che acquisisce sempre più bisogni e comportamenti di dipendenza neonatale, il giocattolo, assumendo l’immunità e l’innocenza infantile, diviene potente strumento di discredito (dire ad un uomo che sta giocando) e di de-responsabilizzazione (sta solo scherzando, lo fa per gioco).
Il bambino giocando ad allevare, ad ammaestrare, a cacciare, catturare, a esporre ed esibire l’animale impara a de-responsabilizzare se stesso e gli altri davanti a queste pratiche persecutive.
Anche l’animale in carne ed ossa come giocattolo rientra in questo quadro di de-responsabilizzazione che porta alla sua completa reificazione e ai modi di rapportarsi connessi a questa (acquisto, maltrattamento, abbandono, distruzione).

(1) JEAN-PAUL SARTRE, Critica della ragion dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963, trad. it. Paolo Caruso, p. 58

(2) BRUNO BETTELHEIM, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli. Milano 1982, trad. it. Andrea D’Anna, p. 279

(3) PHYILLIS GREENACRE, Studi psicoanalitici sullo sviluppo emozionale, G. Martinelli Editore, Firenze 1979, trad. it. Alberto Ponsi, p. 376

(4) ERIK. H. ERIKSON, Infanzia e società, Armando Armando Editore, Roma 1966, trad. it. Luigi Antonello Armando, p. 197

Campagna di sensibilizzazione contro i botti di fine anno


Ogni anno a capodanno assistiamo impotenti al consueto bollettino di guerra con centinaia di feriti, alcuni dei quali dovranno subire amputazioni di mani e dita e perdita della vista, e con le forze dell’ordine come sempre impegnate nel sequestro di botti illegali.
Ma sono ancora una volta gli animali a dover pagare il prezzo più alto di una tradizione che sarebbe doveroso vietare una volta per tutte.
L’uomo dispone di un udito con una percezione compresa tra le frequenze denominate infrasuoni, intorno ai 15 hertz, e quelle denominate ultrasuoni, sopra i 15.000 hertz.
Cani e gatti, invece, dimostrano facoltà uditive di gran lunga superiori: il cane fino a circa 60.000 hertz mentre il gatto fino a 70.000 hertz.
Agli animali oltretutto non è dato comprendere cosa stia accadendo e la paura, o per meglio dire il terrore, può avere risvolti drammatici.
Le tragiche conseguenze dei botti di capodanno non coinvolgono solo gli animali domestici bensì tutti gli animali, compresi quelli selvatici.
La loro agonia e morte a causa di questa assurda consuetudine non possono e non devono lasciarci indifferenti.

Pordenone è un Comune dotato-da anni- di una norma che vieta l’uso di botti, petardi, mortaretti e simili nelle aree pubbliche.
Dal "Regolamento Comunale di Igiene" del Comune di Pordenone,
articolo 38-comma 9:
"Sparo di petardi, mortaretti, e simili in luogo pubblico o aperto al pubblico:
è vietato lungo le strade, piazze e aree pubbliche e aperte al pubblico, il lancio o lo scoppio di petardi, mortaretti o simili, in particolare nel periodo delle festività natalizie, di capodanno, Epifania e carnevale"

Nonostante ciò la sensazione è che, ad oggi, gran parte della cittadinanza non sia pienamente al corrente di questo divieto, e che ad esso non sia data la dovuta visibilità.
Animalisti FVG si è, in questi anni, appellata al Sindaco di Pordenone Dott. Claudio Pedrotti, chiedendo all'Amministrazione di avviare una campagna di sensibilizzazione e di informazione circa il divieto in oggetto,
diretta alla cittadinanza e realizzata attraverso una serie di pubbliche affissioni su plance comunali, ritenendo queste ultime un prezioso strumento per la promozione di un messaggio di civiltà
contro l'utilizzo di botti e petardi in città.
Per il Comune, oltretutto, questa campagna non avrebbe comportato costi aggiuntivi se non quelli comunemente sostenuti per la promozione delle varie iniziative in corso durante l'anno.

L'appello è tuttavia rimasto inascoltato e l'associazione, nel prendere atto del silenzio del primo cittadino di Pordenone, si è fatta anche quest'anno promotrice
della campagna di sensibilizzazione “NO AI BOTTI”, attraverso la distribuzione -per tutto il mese di dicembre- di locandine e centinaia di volantini a Pordenone e provincia.



Non riusciamo a comprendere le ragioni 
che spingono un’Amministrazione Comunale dotata di norme in materia di sicurezza, igiene e tutela animali, a lasciare che le stesse siano così palesemente disattese, mancando di informare e sensibilizzare in maniera adeguata ed efficace i suoi cittadini.