Sabato 12 marzo ha avuto luogo a Mestre (a cura del Gruppo Veganzi) un interessante incontro con Massimo Tettamanti, che ci ha parlato di Ecologia della Nutrizione.
Si è trattato di un momento di riflessione sulle conseguenze delle nostre scelte alimentari a livello locale e, via via allargando lo sguardo e il cuore, a livello planetario.
Da sempre ci viene detto (ed è provato) che il 20% della popolazione mondiale, perlopiù relativa alle grandi aree industrializzate, consuma l’80% delle risorse planetarie.
E, viceversa, l'80% della popolazione (donne, uomini e bambini abitanti nelle aree povere o in via di sviluppo) deve “cavarsela” con il restante 20%.
Per giunta in questi anni la tendenza (che sarebbe logico aspettarsi) a modificare questa assurda proporzione si concretizza troppo poco in fatti e molto in proclami; da una parte un crescente dibattito (anche da parte delle istituzioni) circa la necessità di avviarci verso uno stile di vita sostenibile, dall'altra un sistema economico ed un mercato improntati all'implementazione di strategie (più o meno sottili) atte a farci comprare di più, consumare per poi buttare e riacquistare. Un mercato in grado di produrre merce ad obsolescenza programmata.
Chi desidera approfondire questo importantissimo concetto può contare su una documentazione veramente vasta e variegata, tutta reperibile in rete tramite un semplice motore di ricerca.
Uno per tutti, questo breve documentario:
http://www.youtube.com/watch?v=3xJbzJDxais&feature=related
Ma torniamo alla nostra alimentazione.
L'Ecologia della Nutrizione è una disciplina di studio relativamente recente che coniuga due termini relativi l’uno al pianeta e l’altro all’organismo vivente.
Il termine è stato coniato nel 1986 da un gruppo di nutrizionisti dell'Università di Giessen, in Germania.
Si tratta di una scienza inter-disciplinare, che prende in esame tutte le componenti della catena alimentare e ne valuta gli effetti secondo 4 punti di vista principali: la salute umana, l'ambiente, la società e l'economia. Le componenti della catena alimentare sono tutte quelle coinvolte nel processo di produzione e consumo del cibo, viene cioè seguito tutto il procedimento "dalla culla alla tomba", che comprende: la produzione, il raccolto, la conservazione, l'immagazzinamento, il trasporto, la lavorazione, il confezionamento, il commercio, la distribuzione, la preparazione, la composizione, il consumo del cibo e lo smaltimento dei materiali di scarto prodotti nelle varie fasi.
La disciplina vuole cercare di offrire uno sguardo panoramico di tutte le realtà che producono gli effetti finali relativamente al cibo da acquistare e alla popolazione alimentata.
Questo approccio è certamente “scomodo”, in quanto i suoi risultati scardinano molti dei dogmi che permeano la nostra cultura, le credenze, le abitudini, i vizi. Non è facile ammettere che il tuo sguardo sul verde del praticello si fermava giusto sulla linea dopo la quale cominciava un deserto, causato per rendere verdissimo il tuo pezzo di terra. Non è facile provare sensi di colpa sottili e perfettamente percettibili, che l’avidità del mercato cerca di rendere illusoriamente e fraudolentemente “sopportabili”.
Lo sguardo globale, il domandarsi quanto costa al pianeta (e non solo al mio portafogli) un oggetto che intendo acquistare, è un’operazione indubbiamente onesta; al contrario, utilizzare come metro di valutazione la mia personale spesa e andare, magari, anche a spendere il meno possibile (senza chiedermi per quale motivo il costo di una merce è stranamente basso) è un’operazione che si può certamente definire “di comodo” e anche un po vigliacca.
Il discorso deve inevitabilmente “salire di qualche metro”: dobbiamo cercare di raggiungere un punto di vista che non ci faccia perdere la percezione del risultato finale di un’azione apparentemente banale come quella di prepararci un pasto. Un discorso molto ampio, più di quanto possiamo immaginare, perché tutto è connesso ed ha la stessa causa.
Nonostante l'allarmante dichiarazione dell’ONU, condivisa anche dalla FAO e dall’OMS,
http://www.nutritionecology.org/it/panel2/intro.html
alla maggior parte di noi manca la percezione di quanto costi, in termini di occupazione del terreno e del consumo di acqua, produrre cibo per nutrire le nostre “future bistecche”.
La produzione di mangimi destinati agli allevamenti intensivi ha un costo, in termini di risorse planetarie e impatto sociale, davvero esponenziale. Certamente possiamo puntare l’indice sull’avidità delle multinazionali, sulla perversione del sistema economico e su molte altre cose, ma ormai dovremmo essere in grado di accettare l’unica verità concreta: la causa più importante, per numeri e per effetto, è la scelta del singolo consumatore.
Se i governi e l’industria non sono abbastanza responsabili da chiedersi quanto costi in termini di energia produrre una fettina di carne, allora lo dobbiamo fare noi, perché queste informazioni sono ormai veramente alla portata di tutti.
Un vitello deve mangiare 13 kg di mangime per aumentare di 1 solo kg di peso.
E' facile pensare quante persone potrebbero sfamarsi con 13 kilogrammi di cibo, ma soprattutto quanto inquinamento sarebbe risparmiato.
Le terre fertili in Europa basterebbero da sole a soddisfare il fabbisogno alimentare di tutta la popolazione europea. Ma la realtà è che non bastano per produrre il cibo necessario a nutrire gli animali di cui vogliono nutrirsi gli europei. Dunque?
Dunque andiamo ad occupare terre in Africa, in Brasile, destinandole a coltivazioni che non serviranno a sfamare la popolazione locale bensì gli animali presenti nei nostri allevamenti intensivi.
Incredibile? Certo, ignobile anche. Ma vero.
La foresta amazzonica: da quanti anni ne sentiamo parlare, e da quanti siamo tempestati da appelli atti a salvarla, da inviti all'utilizzo di materiali in carta riciclata?
Ebbene, il problema della carta è ormai superato: solamente il 3% della foresta amazzonica viene in realtà sacrificato per la produzione di carta. Ma la foresta continua inesorabilmente ad essere decimata.
http://it.mongabay.com/news/2010/it0427-hance_forestloss.html
La realtà è che noi occidentali siamo predatori (più o meno consapevoli) di risorse del pianeta.
D’altronde la percentuale dell’80% evidenziata all’inizio non lasciava scampo.
E la questione più drammatica è quella dell’acqua.
Una persona utilizza in media circa 50 litri d’acqua al giorno; l’industria arriva ad utilizzarne il doppio.
Ma l’agricoltura ha bisogno di molto di più – in effetti, il 90 per cento di tutta l’acqua utilizzata dall’uomo.
Il nostro frigo contiene più acqua di quanta possiamo pensare. Per produrre una bottiglia di acqua minerale, ad esempio, si è utilizzato una quantità di acqua pari a cinque volte il volume del liquido che contiene. La nostra bistecca proviene da una mucca che ha avuto bisogno di cibo e acqua per tre anni. Questa unità di misura è conosciuta come “impronta idrica” .
1 kg di carne di manzo- impronta idrica: 15500 litri
Quasi tutta l’impronta idrica della nostra bistecca è creata dai cereali utilizzati per nutrire il bestiame.
1 kg di carne di pollo- impronta idrica: 3900 litri
Un pollo consumerà più di 3kg di cereali e necessita di 30 litri d’acqua nelle 10 settimane che precedono la sua macellazione.
Una scatola di sei uova- impronta idrica: 1200 litri
L’impronta idrica di un uovo è dovuta in gran parte all’acqua necessaria per crescere il grano utilizzato per allevare il pollo.
1 litro di latte-impronta idrica: 1000 litri
Il latte ha la seconda impronta idrica per grandezza nell’ambito dell’agricoltura, solo quella della carne di manzo è maggiore. Ciò è dovuto all’acqua necessaria per coltivare il cibo e per far bere gli animali.
Possibile che la tecnologia e le innovazioni non siano in grado di proporre soluzioni?
Certo che lo sono, ma non servono, visto che sarebbe sufficiente ridurre i consumi o convertirli in consumi sani.
E invece? Invece gli scienziati sono in corsa per un premio indubbiamente prestigioso: concepiranno, in un futuro non tanto lontano, una mucca che produce meno gas serra.
Eppure per cambiare sensibilmente lo stato attuale delle cose basterebbe, tanto per incominciare, mangiare anche un solo giorno alla settimana alimenti esclusivamente vegetali.
Se, ad esempio, fosse promossa una giornata vegetariana in tutte le mense (anche solo scolastiche), la riduzione di impatto ambientale (e il conseguente risparmio di risorse) sarebbe davvero significativa, senza contare i benefici a livello di salute.
Tutti sappiamo che il fumo “nuoce gravemente alla salute”: ce lo ricordano medici, istituzioni, divieti e restrizioni, nonché gli stessi pacchetti di sigarette (che riportano svariate diciture sulle conseguenze del fumo). L'industria del tabacco non riceve finanziamenti pubblici né può pubblicizzare i propri prodotti.
Nessuno si sognerebbe di negare o cambiare neppure lontanamente questa realtà.
Ma nessuno (medici, istituzioni, opinione pubblica) parla di un'altra realtà: il consumo di carne fa molti morti. Ne fa un numero indicibilmente grande fra gli animali non umani, ne fa un numero impressionante tra gli umani per le cosiddette “patologie del benessere” e per tumori e problemi cardiocircolatori. Altro morto “eccellente”, per i motivi sopra elencati è, infine, il pianeta. Eppure l’industria della carne percepisce, in Europa ad esempio, una serie di finanziamenti davvero rilevanti proprio dalla Comunità Europea. E nessuno si sognerebbe di scrivere “nuoce gravemente alla salute” o “provoca cancro” sulle confezioni di carne o su quelle presenti nei fast food.
Chi volesse ordinare una copia del libro di Massimo Tettamanti può andare al seguente link e seguire le istruzioni:
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