giovedì 24 ottobre 2013

Modelli alimentari - note a margine di una conferenza sull'alimentazione a base di insetti

immagine: © Kirill Kedrinski - Fotolia.com


MODELLI ALIMENTARI
NOTE A MARGINE DI UNA CONFERENZA SULL’ALIMENTAZIONE
A BASE D’INSETTI

Nel 1997 abbiamo scoperto che l’industria della carne, per abbassare i costi, mescolava ai mangimi polveri di metalli pesanti ricavati dai depuratori e almeno il 30% di deiezioni (merda).
Alcuni docenti universitari dimostrarono che nelle deiezioni vi è almeno il 25% di sostanze non assimilate che possono essere riutilizzate, scientificamente, nella nutrizione degli animali da macello.

Successivamente abbiamo scoperto che bovini e ovini erano nutriti con le carcasse (scientificamente tritate e liofilizzate) inutilizzabili degli animali macellati e con quelle dei cani randagi soppressi nei grossi centri urbani. In sostanza, animali erbivori da milioni di anni, ora erano costretti a ingoiare proteine animali, con il risultato esaltante di una più rapida crescita. L’Homo sapiens sapiens scoprì un fantastico doppio guadagno; da un lato trovò il modo di sbarazzarsi di migliaia di tonnellate di carcasse animali, dall’altro, stringendo alleanza con
l’Homo oeconomicus, trovò il modo di alimentare il vitello con le ossa della madre.
Nacque così la “mucca pazza”, definizione poco allarmante coniata dalle sacre scritture dell’informazione, ma si trattava (e si tratta) di encefalopatia bovina spongiforme trasmissibile all’uomo.

Franz Bodenheimer, padre della ricerca in Israele è stato il primo studioso a documentare l’estensione dell’appetito umano per gli insetti (Insects as human Food, Den Haag 1951); è altrimenti noto per aver dimostrato che la manna venuta dal cielo di cui parla la Bibbia era in realtà una secrezione cristallizzata prodotta da una specie di coccide diffuso nella penisola del Sinai. 
Quel che è certo è che gli Indiani d’America, quando vi erano forti carestie, per sopravvivere mangiavano anche le locuste. Come è stato provato quarant’anni fa, gli Indi (maschi) Taruya, che vivono tra Colombia e Brasile) mangiano frutta, carni e verdure, ma alle donne danno da mangiare insetti.
Anche in Cina, negli anni Quaranta e Cinquanta, la popolazione povera si nutriva di insetti (cfr. K. C. Chang, Food Chinese Culture, New Haven 1977, p. 13). Bodenheimer riferisce che negli anni Quaranta in Cina vide le operaie della seta lavorare in condizioni sub-umane e cibarsi delle larve dei bachi da seta, per sopravvivere. Lo stesso ha provato W. S. Bristowe (Insects and Other Invertebrates for Human Consumption in Siam, 1932) che ha fornito una dettagliata descrizione dei lavoratori Laotiani e Vietnamiti (sotto la dominazione francese) costretti dalla fame a cibarsi di scarafaggi, aracnidi e scorpioni.
A proposito di questioni culturali, Bristowe dimostra che è probabile che la gente acquisti il gusto per qualcosa che la salva dal morire di fame.

I sostenitori della bontà dell’alimentazione insettivora affermano che il rifiuto di questo tipo di alimentazione è un problema culturale degli Europei e degli Americani. Può essere.
La questione delle questioni è da una parte lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, la sua reificazione (l’essenza della schiavitù non consiste nel lavoro faticoso, ma nella riduzione dell’uomo a cosa), dall’altra lo sfruttamento più sconsiderato delle risorse della Terra, la devastazione della natura, il delirio della Instrumentelle Vernunft.
In fondo è proprio vero: è un problema culturale.
Nel 1885, il nobiluomo inglese V. H. Holt pubblicò un libro che contribuisce a svelare l’intelligenza dell’Homo oeconomicus: Why Not Eat Insects? (London 1885, ma vi è una edizione londinese del 1969).
Scandalizzato dagli insetti che divorano le verdure dei suoi campi, Holt pensò di aver trovato la soluzione a due problemi: la fame dei braccianti e il raccolto del padrone, convincendo i primi della bontà e del valore nutritivo degli insetti. Il padrone avrebbe continuato a mangiare come sempre, i braccianti si sarebbero saziati di scarafaggi, scorpioni ecc. Scrive Holt: “In tempi quali questi che viviamo, pieni di difficoltà agricole, si dovrebbe fare tutto il possibile per alleviare le sofferenze dei nostri affamati lavoratori. Sicché, perché mai non dovremmo far valere il nostro ascendente nell’indicar loro una negletta fonte di cibo?”.
Le multinazionali e la scienza dei loro laboratori guardano con interesse alla diffusione di un modello alimentare basato sul consumo di insetti, naturalmente “per combattere la fame nel mondo”. Sempre “per combattere la fame” si è puntato sul cibo Frankestein, il cibo transgenico. La realtà di questi ultimi vent’anni ha dimostrato quale sia lo scopo principale del cibo transgenico svelando contemporaneamente un nuovo ramo dell’imperialismo: la biopirateria (cfr. Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, Cuen, Napoli 2001). È arcinoto che se l’umanità diventasse vegetariana, le superfici già oggi coltivate potrebbero nutrire una popolazione doppia rispetto a quella attuale; una popolazione che dunque rischierebbe di condurre una vita sana, senza mattatoi, senza insetti nel piatto in una civiltà degna di questo nome.
La questione di fondo riguarda il rapporto dell’uomo con il mondo della vita. 
Non tutto ciò che si può fare si deve fare. Se fosse vero il contrario sarebbe “tecnicamente e scientificamente corretto” praticare quanto suggeriva Jonathan Swift in Una modesta proposta, nel 1729.
Si tratta di capire se la conoscenza deve essere un fattore di moltiplicazione del dolore nel mondo o se debba essere apportatrice di un nuovo mattino del mondo. Si tratta di capire se l’uomo debba essere la maledizione della Terra, se le sue mani debbano essere sporche del sangue degli animali uccisi o se quelle mani possano stringere i semi dell’aurora; se la nostra vita debba essere spesa per moltiplicare la “trionfale sventura” (di cui parla T. W. Adorno, “Aber die vollends aufgeklärte Erde strahlt im Zeichen triumphalen Unheils” – Gesammelte Schriften, Bd. 3, p. 19) o per innalzare la civiltà e ingentilire il mondo apportandovi bellezza e giustizia.
Che Orfeo accompagni Giasone.

21 ottobre 2013                                    GINO DITADI

Gino Ditadi, studioso delle ideologie, filosofo del biocentrismo e della Deep ecology.
Autore/curatore, tra gli altri, de: I filosofi e gli animali, tomi I-II, Isonomia Ed. Este 1994 (la più vasta raccolta esistente di scritti e materiali, dall’antichità ei nostri giorni); LEV N. TOLSTÒJ, Contro la caccia e il mangiar carne, Isonomia Ed.; GIACOMO LEOPARDI, Dissertazione sopra l’anima delle bestie e altri scritti selvaggi, Isonomia Ed., Este 1998 – e Idis Ed. 2011; G. DITADI, Le grandi religioni e gli animali, Red Ed., Como 1999; PLUTARCO, L’intelligenza degli animali e la giustizia loro dovuta, Isonomia Ed., 2000; TEOFRASTO, Della Pietà, Isonomia Ed., 2001-2005; ERASMO DA ROTTERDAM, Querela Pacis, Lamento della Pace, Idis Ed, Este 2009; G. DITADI, Rifiuto del sacrificio di sangue ed estensione del diritto agli animali in Teofrasto, in STEFANO RODOTÀ e PAOLO ZATTI, Trattato di Biodiritto, volume V, Diritto e animali, Giuffrè Ed., Firenze 2011.

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