martedì 25 agosto 2015

742 anni di prigionia alla Sagra dei osei di Sacile

Celebrazione della natura, salvaguardia dell'ambiente, rispetto per gli animali: ciò che abbiamo visto, anche quest'anno, alla Sagra dei osei di Sacile, è lontano anni luce da tutto questo. Fiere come questa continuano ad essere uno squallido e triste mercato di vite, una distesa di gabbie, un giro d'affari per chi le organizza, un'occasione per promuovere il mondo della caccia. Noi continueremo a documentare ciò che accade da 742 anni a Sacile, per mostrare a tutti il vero volto delle fiere ornitologico venatorie.

Aiutaci a diffondere queste immagini,CONDIVIDI questo video.

mercoledì 19 agosto 2015

NoSagraOsei diventa un libro


Comunicato Stampa: NoSagraOsei diventa un libro

Safarà, la Casa Editrice di Pordenone, si impegna in queste ore nel sostegno a nosagraosei.org: a darne notizia è Cristina Pascotto, responsabile editoriale di Safara' Editore e curatrice della collana ANIMALIA, dedicata all’approfondimento dell’interazione tra animali umani e animali non-umani, nelle sue forme difettive come in quelle più virtuose.
Oggi abbiamo ricevuto e pubblicato un suo contributo intitolato: "LA PRIGIONIA VISIBILE E INVISIBILE", toccanti e personali riflessioni sulla sagra dei osei di Sacile,
un evento che Cristina descrive come "uno sconcertante appuntamento di celebrazione della prigionia; quella più pericolosa, che avviene sotto gli occhi di tutti".
A conclusione Cristina dichiara: "Per tutti questi motivi, e per molti altri ancora, Safara' Editore si impegna ad ospitare nel prossimo futuro, all'interno della collana ANIMALIA, le molte voci che animano il movimento di civiltà NoSagraOsei, simbolo del superamento della barbarie declinata come tradizione".

La notizia di questa pubblicazione, che vedrà luce nei prossimi mesi, ci rende orgogliosi; Safarà Editore è la casa editrice che ha recentemente pubblicato "Noi Animali-We Animals", il libro della fotoreporter canadese
Jo-Anne McArthur che a settembre sarà a Pordenone nell'ambito della rassegna Pordenonelegge.
Riteniamo l'impegno di Safarà Editore di pubblicare un libro su NoSagraOsei un'occasione preziosa per mantenere viva l'attenzione su ciò che eventi come la Sagra dei Osei di Sacile rappresentano per migliaia di vite allevate, esposte e messe in vendita come un qualsiasi oggetto inanimato.

lunedì 17 agosto 2015

La corsa degli asini di Porcia (PN)


La corsa degli asini di Porcia (PN) si riconferma, ogni anno, un penoso e triste spettacolo di sopraffazione. 
Anche quest'anno - durante tutto il tempo- gli asini hanno fatto capire, con tutte le loro forze, che non volevano partecipare al violento gioco cui erano costretti. Chiediamo a chi guarderà queste immagini di dirci, in coscienza, dove vede il divertimento per questi animali.




Pubblichiamo con piacere questo importante contributo di Troglodita Tribe a commento del video della corsa e cogliamo l'occasione per ringraziare ancora una volta Fabio e Lella (Troglodita Tribe) per il prezioso sostegno. 

Una potente impotenza
Durante tutto il tempo gli asini hanno fatto capire, con tutte le loro forze, che non volevano partecipare al violento gioco cui erano costretti. Le immagini parlano chiaro. Invisibili, sono rimasti inascoltati.

Asini che resistono, che cercano di divincolarsi, che mostrano fastidio, spavento, incredulità di fronte alla stupida e squallida arroganza di chi vuole cavalcarli e usarli come burattini di una festa senza senso. Questo mostra il brevissimo video sulla corsa degli asini a Porcia.

Una sagra che insegue la povera tradizione di turno, che inneggia, proprio mentre violenta e reprime, alla religione, alla pace, alla preghiera. Ma non vogliamo soffermarci sulla solita pochezza che regge la stortura di queste manifestazioni, che sono il sale di tanta cultura che in troppi insistono a voler difendere inneggiando alle radici storiche, antropologiche, sociali di un mondo in disfacimento, che ha ormai distrutto quasi ogni speranza per i suoi stessi discendenti.

Quello che più ci preme notare, invece, quello che ha colpito ancora una volta nel segno fino a tenerci incollati per tutta l’infinita e straziante durata del pur brevissimo video girato dal gruppo Animalisti FVG, sono stati i movimenti degli asini.

Il loro girare su se stessi, il loro impuntarsi, il loro divincolarsi, il loro agitare il muso, la loro espressione di spavento tutte le volte che uno di questi pesanti oppressori saltava con movenze rozze e grossolane su di loro. Tutto il loro parlarci con il corpo era talmente manifesto, talmente urlato, che nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe mai potuto fraintendere.

Una gara che non ha funzionato da alcun punto di vista, una gara boicottata da questi animali che non davano affatto l’impressione della rassegnazione né, tanto meno, della complicità con il “buon padrone”. Non ci stavano, non volevano, e con tutti i mezzi che avevano a disposizione hanno cercato di ribellarsi e di resistere e di impedire quell’insignificante ingiustizia, quella squallida e dolorosa umiliazione.

Certo, non ci sono riusciti, e una ridicola pantomima dove alcuni neanche partivano mentre altri andavano nella direzione opposta, c’è comunque stata.

Una resistenza inutile?

Di certo una potente impotenza, proprio come quella che abbiamo provato nell’assistere a quest’ennesima “prova tecnica di dominio”.

“Che cosa potrei fare?” continui a chiederti.

Irrompere e impedire la gara? Liberare gli asini? Assecondare e favorire i loro tentativi? Denunciare, gridare, scrivere, mostrare l’abiezione e lo squallore di un’ingiustizia che ti coinvolge, che ti riguarda direttamente?
Tutte azioni potenti e resistenti, ma destinate a scontrarsi con la realtà di una macchina che ha sempre ragione, che gira senza fermarsi da millenni stritolando ogni corpo.
Proprio come quegli asini continuiamo a resistere e a ribellarci con i mezzi che abbiamo.
Che altro potremmo fare?

Troglodita Tribe
(fonte: Resistenza Animale)




lunedì 10 agosto 2015

Il contromanifesto per la Sagra dei osei di Sacile, affissione gigante a Pordenone



COMUNICATO STAMPA 

Quanto vorremmo saper volare, abbandonare il suolo, i suoi pesi e i suoi affanni, o forse, senza andarcene, trasformare tutto questo in qualcosa di più armonico.
Guardiamo il cielo e ci ritroviamo a sognare, in equilibrio, tesi tra terra e cielo, a reinventare le leggi armoniche di gravità. Su questo cielo però, pesante come un macigno, incombe un numero: 742
742 sono le edizioni della Sagra dei Osei di Sacile - da 742 anni, a Sacile, si celebra il nostro fallimento.
742 anni di sogni mancati perché, quando non siamo più in grado di percepire il nostro corpo, di godere delle tensioni che generano movimento, altro non ci resta che l'invidia.
Invidia per il volo, per la leggerezza di chi conosce la libertà. Dominare-controllare-opprimere-schiavizzare-costringere-tarpare-tagliare... le ali di chi sa e desidera volare.
Possiamo ingabbiare, e anche uccidere, ma non possiamo impedire a chi sa ancora sognare di continuare a lottare e, se solo avessimo occhi per guardare i balzi disperati degli uccelli imprigionati, orecchi per ascoltare i loro canti che, meglio delle nostre più colte parole, sanno comunicare, se solo riuscissimo a non porre innanzi a tutto i nostri interessi, non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro.
Ma così non è, e per questo - non certo da eroi salvatori, bensì come animali compagni di lotta - con tutti i nostri limiti- scegliamo di unirci al loro canto.

A spingere Eleanor Meredith, autrice del manifesto della 742esima Sagra dei Osei di Sacile, "è stato il desiderio di creare un'illustrazione colorata, spensierata e fantasiosa".
Non possiamo non ammettere che questo sarebbe stato anche il nostro desiderio; prima, però, si dovrebbe restituire loro la libertà e smetterla, una volta per tutte, di allevare sempre nuovi - pronti all'uso - prigionieri.
Sino a quando Sacile offrirà spazio ad allevatori, commercianti e cacciatori, il solo parlare di spensieratezza e fantasia va considerato uno schiaffo in faccia alle migliaia di vittime di un sistematico abuso.

Per questo, per il contromanifesto per la Sagra dei Osei 2015, abbiamo coperto il cielo con l'immagine di un uccello e tre forbici all'altezza delle ali, pronte a recidergliele.
In rappresentanza di tutti gli uccelli che durante la sagra verranno esposti e venduti a Sacile, di tutti coloro cui è stato negato il volo, la libertà e una vita degna di essere considerata tale.
A Sacile, anche quest'anno, non vi sarà alcuna festa della natura, bensì la tragica celebrazione di 742 anni di prigionia.

Il contromanifesto 2015, promosso da Animalisti FVG attraverso un'affissione gigante presente da oggi a Pordenone (Via Montereale, parcheggio Ospedale)
si avvale della collaborazione della grafica e illustratrice Giulia Spanghero.

Queste le sue parole:
"Volevo rappresentare in qualche modo la privazione della libertà senza però ricorrere all'idea della gabbia perché ritengo che sia talmente sfruttata che ormai ha perso la sua violenza concettuale ed ha bisogno - per essere incisiva - di essere rappresentata in maniera insolita ed originale. Stavo riflettendo sulla prigionia come ad uno stato potenzialmente comune a tutti gli esseri viventi, e mi è venuto in mente un modo di dire: "tarpare le ali", che di solito viene usato come metafora per indicare una situazione umana, ma che nel significato letterale indica precisamente il taglio delle ali negli uccelli per impedire loro di volare.
Di conseguenza inserire le forbici nell'immagine rimanda ad un atto violento prettamente umano. Ho scelto il cardellino come specie simbolo: un uccellino dall'indole particolarmente paurosa, nello stato libero in via di estinzione, piccolo di dimensioni e fragile.
La Sagra dei Osei di Sacile la conosco perché molto radicata nella tradizione e perché, come grafica e illustratrice, vedo che le immagini dei manifesti che la pubblicizzano sono ogni anno molto belle anche se non rispecchiano quello che ho potuto vedere nei video su internet. Non ci sono mai stata perché è una forma di intrattenimento che non mi interessa né diverte. Non mi piace l'idea di sfruttamento non solo degli animali ma degli esseri viventi in generale. "


Giulia Spanghero ha lavorato per Disney Italia e Trudi. Da qualche anno è grafica e illustratrice freelance e ha collaborato sia in Friuli che fuori Regione nella progettazione di immagini promozionali per eventi, loghi e immagini coordinate. Ha collaborato con RCS Mediagroup. Nel 2015 è uscita per Paragrafo Blu una bookapp dal titolo "Auschwitz: una storia di vento" con le sue illustrazioni. Questo lavoro è stato selezionato tra i dieci finalisti del premio internazionale Digital Award nel corso della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna ed ha ricevuto l' "Editor's Choice for Excellence in Design 2015" da parte della rivista statunitense Children's Technology Review.
Giulia Spanghero è presente come autrice nell'Annual degli Illustratori Italiani 2015, a cura dell'Associazione Autori di Immagini. Fa parte del collettivo Hybrida di cui è tra i curatori della grafica e delle performance di lightshow.


Per rappresentare il vero volto della Sagra dei osei di sacile non serve essere un attivista per la liberazione animale: chiunque si dichiari contro ogni forma di schiavitù, dominio e oppressione, senza operare dei distinguo, non potrà che considerarsi un compagno di lotta pronto a dire nosagraosei, mettendoci la faccia e il proprio impegno.


affissione del Contromanifesto 2015 a Pordenone
Via Montereale (parcheggio Ospedale)


domenica 9 agosto 2015

La "complicità del binomio" e il cavallo che saltava gli ostacoli da solo


Qualche giorno fa abbiamo ricevuto una mail a commento del nostro video "Sport equestri: uno sguardo su un concorso indoor di salto ostacoli". Si tratta di una serie di riflessioni che desideriamo pubblicare, nel rispetto dell'anonimato dell'autore della mail, perché rappresentative del punto di vista di tante persone legate al mondo degli sport equestri. 
Siamo molto grati a Egon Botteghi per la risposta data a questa persona, puntuale come sempre, toccante e ancora una volta importante in tutte le sue sfumature. Desideriamo condividerla con voi lettori di questo blog, augurandoci sia un'occasione per tenere alta l'attenzione su una pratica di sfruttamento ancora troppo poco messa in discussione. 

Buon pomeriggio,
Vi contatto perché appena ho visto il video pubblicato da voi su YouTube, ho subito sentito il dovere di scrivervi, far sentire la mia opinione.
Guardando il video, ho provato molto fastidio. Ma non verso le cose che avete filmato, verso quello che avete detto.
Mi spiego meglio: molte cose le ho trovate false, un accanimento verso questo sport, che se praticato a dovere, è uno sport SPLENDIDO. Pratico la disciplina del salto ostacoli da svariati anni, con istruttori che mi hanno SEMPRE insegnato che il cavallo non è un giocattolo o un divertimento personale, ma è un animale esigente.
Non mi è MAI stato insegnato di impartire dolore a questo animale, anzi, ogni volta il mio istruttore cerca di correggere ogni allievo per raggiungere un livello di rispetto reciproco, senza usare forza, strattoni eccetera. 

Ma tornando al video, io ho partecipato a Pordenone, quindi mi sento presa in causa.
Le esigenze dei cavalli ormai sono cambiate, da tantissimo tempo, se non ci si è accorti. Comunque, se un cavallo passa tre giorni non significa che passi tutta la vita al chiuso-.
MOLTI maneggi hanno paddock sufficienti.... La natura del cavallo ormai è cambiata. Da quando abbiamo deciso di addestrare i cavalli sin dall'antichità abbiamo preso la responsabilità di togliere loro la totale libertà. Ora, moltissimi cavalli, non saltano solo perché costretti, ma perché lo sentono come istinto, è nel loro sangue, hanno il cuore per saltare! Non è vero che i cavalli agiscono per estremo condizionamento secondo me. Anzi, tanti cavallo prendono iniziativa, portando con se il cavaliere. Spesso, si tratta di complicità del binomio

I tentativi di ribellione sgroppate ecc... Non sono solo nei concorsi indoor... Anche in passeggiata, posso esserci rumori strani, per cui scartano, o uccellini che escono all'improvviso... 
Altro errore.... Il paraorecchie è stato creato per riparare le orecchie da insetti, mosche... Che potrebbero dare fastidio. Nonché sono anche estetiche, di colori diversi... Poi, ci sono quelle ovattate, per cavalli sensibili... Create apposta per non far soffrire il cavallo.
Non è vero che la frusta (frustino) è usata solo per impartire segni di dolore. Mi è stato insegnato fin da subito che la frusta è solo un metodo di comunicazione, come un allungamento del nostro braccio.
Viene usata per indicare, per chiedere attenzione, per aiutarsi ( Non nego poi che ci siano moltissime persone che fanno un uso improprio di questo oggetto... su questo non sono d'accordo neanche io), e la FISE su questo è molto attenta... Se usi troppo il frustino vieni richiamato, e ci possono essere anche conseguenze.
Può anche essere utilizzata per punire si....Ma, essendo animali che vivono in branco, dove c'è un capo branco... Se si disubbidisce al cavallo capobranco, cosa succede? morsi e calci... Quindi, essendo noi i capi, il frustino è un po' come un segno di comando, no? inoltre, NON E' un oggetto che deve creare dolore.

I passi indietro non sono una punizione, non sempre. Ma ovvio, se si fa qualcosa che non si deve, se non c'è collaborazione, due passi indietro non sono la morte a mio parere. 
Gli sport equestri non autorizzano il dolore.
Se vogliamo dirla bene, autorizzano persone incompetenti a presentarsi in un concorso ippico senza il minimo rispetto del proprio cavallo, questo si. Concludo col dire che è vero, ci sono persone che meriterebbero frustate al posto dei cavalli, ma non ci si può fare nulla.
Sono stata piuttosto amareggiata da questo video, perché non è sempre così lo sport in questione. Basta guardare i più grandi atleti del mondo, a cui ci dovrebbe ispirare, i quali tengono i cavalli nelle migliori condizioni, trattati meglio di atleti olimpionici.

Spero di non essere stata troppo lunga, e spero leggiate TUTTA  la mia mail. 
Grazie.

La risposta :

Salve!
Innanzitutto ti ringrazio per aver scritto e ti ringrazio per il tuo tempo.
Leggere la tua lettera mi da un'ulteriore occasione di ripensare al mio percorso e provo di metterlo ancora una volta a disposizione per rifletterci assieme.
Tu dici subito all'inizio che il video ti ha infastidito non per ciò che si vedeva ma per ciò che si diceva.Capisco perfettamente.
Tu, come amazzone praticante lo sport equestre, conosci bene ciò che le immagini del video mostravano, per averle viste, vissute, esperite tante e tante volte.
Quello che è molto difficile è accettare invece di sentirsi dire ciò che raccontano quelle immagini.
Spogliarsi delle nostre giustificazioni, questo è molto difficile.
E' successo anche a me.
Il momento in cui da istruttore sono diventato ex istruttore, lo devo molto ad un insegnante francese, da cui io credevo di essere andato per imparare ad usare ulteriormente la biteless bridle, e che invece ci ha messo, io e gli altri allievi, di fronte alle nostre responsabilità.
Ci ha mostrato, anche lui attraverso video (di concorsi, di testimonianze di amazzoni) cose che noi conoscevamo benissimo, che praticavamo ogni giorno della nostra vita, e ci ha detto "Io vi metto il naso nella merda, poi voi potete benissimo anche rimanere nella merda, ma non potete più dire che non è merda". 
Perdonami il francesismo, lui era francese e si esprimeva così, ma è stato davvero molto efficace, per chi era pronto ad ascoltare, e ci ha semplicemente messo davanti alle nostre evidenze.
Certo, molti prima di allora mi chiedevano come mai io, che ero un animalista dalla nascita, montassi i cavalli, addirittura quelli da corsa, e se non vedessi in questo una contraddizione e sopratutto non vedessi l'abuso.
Ma io a queste persone avevo pronte tutte le risposte, tutte le mie giustificazioni, che, sofisticamente, trasformavano ciò che era in ciò che non è e mi faceva dormire sogni tranquilli. (se vuoi approfondire la mia storia e puoi leggere questa testimonianza  )
Come leggerai, se ne avrai voglia, vedrai che anch'io, come istruttore, cercavo di insegnare quello che per me era il rispetto assoluto per il cavallo, fino ad arrivare ad avere una scuola ad impostazione "naturale".
Ma innanzitutto ho dovuto arrendermi ad un evidenza: il rispetto assoluto per il cavallo termina quando questo va in collisione con i nostri interessi (che a pensarci bene, nell'equitazione, sono anche futili e non ne va certo della nostra esistenza). Finché il cavallo è un "Good Boy", come dicono gli inglesi, io cerco di andargli incontro, ma cosa succede se si ribella davvero o se le sue "pretese" vanno in contrasto con i suoi "doveri" che noi abbiamo preventivamente (è vero, ormai in secoli di storia e di dominio) deciso per lui/lei?.
Quindi, dopo un lungo percorso, durato anni, in cui ho cercato costantemente di migliorare il sistema di vita dei cavalli che lavoravano con me, sono giunto alla conclusione ( e l'ho fatto anche con un senso di lutto, a volte, perché per me l'equitazione era la vita, il mio mondo) che non sarei mai riuscito a trovare il sistema giusto per fare una cosa sbagliata.
Infine, quando come istruttori correggiamo l'assetto dei praticanti (che non sono nel giusto equilibrio, che hanno le mani troppo forti, che tirano e scalciano) partiamo appunto dal presupposto che il cavallo sta soffrendo. Quindi non si può negare che i cavalli stiano male affinché qualcuno possa imparare ad andare a cavallo.
Nessuno può negare la sofferenza dei cavalli da scuola, che infatti spesso occupano gli ultimi posti nella scala gerarchica che noi abbiamo dei cavalli.
E' come se dovessimo permettere di picchiare qualcuno per far imparare a non usare la violenza.

Ma torniamo a quello che dici del video.

Innanzitutto il fatto che tu sia stata una delle amazzoni che ha partecipato al concorso non è per me indifferente.
E' stato per me infatti motivo di turbamento dover commentare quel video pensando ai cavalieri e d amazzoni coinvolti che si sarebbero rivisti e sentiti giudicati.
E so quanto quel giudizio fa male e sembra caderci in testa come una tegola immeritata, da cui dobbiamo difenderci.
Anch'io, ripeto, sono stato uno di loro, anch'io ho dovuto farmi mettere il naso nella merda da qualcun'altro per capire quello che già sapevo, e so perfettamente che la maggior parte delle persone che monta a cavallo lo fa credendo di amare il proprio e gli altrui cavalli, e pensando di fare il meglio per loro.
Non è una critica sulle intenzioni o sui sentimenti, è una critica a quello che poi succede veramente, cercando di avere la mente alle esigenze dei cavalli.
Tu dici che sono cambiate. In cosa precisamente?
I cavalli sono e continueranno ad essere animali sociali, nati per vivere in grandi spazi aperti, che saprebbero benissimo come vivere la propria vita e come autodeterminarsi (tu stessa dici che gli abbiamo tolto la libertà, e questa è una cosa gravissima).
Tu dici che molti maneggi (certo molto di più di quelli di venti anni fa, ma certo ancora non tutti e temo ancora una minoranza) hanno paddock sufficienti. Sufficienti per cosa? Spesso sono paddock di una manciata di metri a fronte di una animale che avrebbe un habitat grande quanto uno stato americano (sei mai stata a vedere i Mustang liberi in Nevada? E' un viaggio molto istruttivo, che ci fa capire un pò di più l'animale di cui stiamo parlando.)
Quanti sono i cavalli che vivono nel paddock? Spesso e purtroppo uno soltanto, a fronte di una animale costituzionalmente sociale (o pensiamo di avere modificato anche questo? Chiediamolo agli etologi allora, che forse i cavalieri non ne sanno abbastanza, presi come sono solo dall'altezza dell'ostacolo da far superare).
Quante ore della sua giornata passa nel paddock e quali sono gli stimoli che lì riceve per interagire con il proprio ambiente, muoversi, esplorare, come ogni animale sano ha diritto di fare?
Spesso non c'è nessuno stimolo ed il cavallo è lasciato a morire dentro in un ambiente (per lui) completamente deprivato.
Tu dici che i cavalli saltano per istinto, che ce l'hanno nel sangue.
Mi vengono in mente i vecchi manuali di equitazione su cui io ho studiato (e che spero siano superati) per ottenere le prime abilitazioni, in cui c'era scritto che anche una mucca salta fino ad un metro e venti in caso di necessità.
Con questo penseresti ad una mucca come ad un animale nato per saltare, con il salto nel sangue?
Cosa fa saltare un cavallo libero? L'hai mai visto? Cosa fa saltare un cavallo da noi addestrato? Hai mai addestrato un puledro a saltare? Hai mai visto le competizioni di salto in libertà per i puledri? Lì vedi cosa fa saltare i cavalli che noi chiameremo poi da salto ostacoli.E cosa succede se un cavallo non vuole saltare?
Quello che tu definisci complicità del "binomio" è solo il fatto che il cavallo ha imparato bene la lezione, che se salterà non avrà problemi.
Tu dici che non solo nei concorsi indoor ci sono dei tentativi di ribellione da parte dei cavalli, ma anche in una tranquilla passeggiata, tra uccellini che cinguettano.
E certo, e ci mancherebbe. Per chi conosce i cavalli sa benissimo che loro cercano di ribellarsi continuamente (anche se, quello che viene chiamato dagli etologi e sociologi, impotenza appresa, funziona ahimè molto bene sulla psiche dei "nostri amici equini") e che le nostra reazioni ai loro tentativi di dirci la loro devono essere quasi sempre le stesse (mica possiamo permetterci di "farci mangiare i panini" come si dice in gergo) e quindi le frustrate ad un cavallo che si impunta e non esegue davanti ad un ostacolo arrivano sia nei concorsi (indoor o all'aperto che siano) ma anche durante un'amena passeggiata tra amici.
E questo è una giustificazione o la riprova del problema di cui stiamo parlando?
Tu dici che si fa un errore sulla descrizione del paraorecchie. Non mi sembra proprio, perché alla fine tu dici la stessa cosa.
Il paraorecchie, che può essere ovattato o può essere integrato con cotone nelle orecchie, si usa appunto perché i cavalli sono, accidenti, sensibili al rumore, che nell'indoor è parossistico (pensiamo sempre a quello che ricercano i cavalli, che non sono scimmie rumorose come noi).
So benissimo che ci sono i paraorecchie per gli insetti, da usare nei paddock o nei concorsi estivi all'aperto (perché altrimenti, quanti insetti ci sono a Pordenone a Dicembre?) e so benissimo che sono così carini, tutti colorati, da abbinare al sottosella, alle fasce e magari anche al frustino, che è così divertente vestire la nostra bambolina cavallo.
Ti risparmio la descrizione accurata di come invece vengono usati i paraorecchi (o tappi) nei cavalli da trotto (che usano proprio la sensibilità al rumore per lo sprint finale) o quelli per i cavalli da corsa al galoppo, che devono essere dichiarati nel programma di gara.
 Quando arrivi a parlare della frusta tutto il meccanismo che, anche nel pezzo che ti ho citato e che spero avrai la curiosità e la bontà di leggere, ho cercato di spiegare viene a galla e tu ne sei la testimone vivente, come lo sono stato io.
Facciamo del male ma non vogliamo ammetterlo, come quasi nessuno d'altronde, e quindi cerchiamo di coprirlo e allontanarlo da noi con giustificazioni che ci paiono assolutamente logiche anche se invece sono cercate ad hoc (come i medici che facevano sperimentazione sulle donne nere, dicendo che tali donne avevano una soglia dl dolore assolutamente superiore alle bianche e che quindi, anche se venivano vivisezionate, in realtà non sentivano niente, e comunque non sentivano il dolore che avremmo sentito noi).
La frusta quindi diventa una cosa che non è usata SOLO per infliggere dolore (parole tue). Quindi la uso per infliggere dolore ma ogni tanto anche no. E' come la uso? Per indicazione, dici tu.
Certo, per indicare al cavallo di stare attento a quello che fa, perché io gli ricordo che sono armato e che posso fargli molto male (prova a darti una frustata, vedrai che fa molto male, anche se non sembra quando la usiamo con i cavalli, ma ti assicuro che la sentono tutta, come noi).
Ma tu lo sai benissimo che la frusta serve per fare male ed è un oggetto nato per questo (anche tra uomini si usava la frusta, anche con altri animali e sempre per lo stesso motivo) e allora tiri fuori, come ultimo appiglio e giustificazione, la violenza che i cavalli eserciterebbero uno sull'altro.
 Ma tu conosci come funziona una banda di cavalli selvatici o rinselvatichiti, o anche semplicemente un gruppo stabile che vive in un paddock sufficientemente grande?
Forse no, se mi parli ancora di capobranco, con quell'idea di capobranco che sembra interpretato da John Wayne e che infatti è frutto di una osservazione sbagliata (e superata), vittima del sessismo e della  nostra mania del dominio con cui, in alcune epoche, abbiamo osservato, o creduto di osservare, gli animali.
Forse sarebbe ora di leggere un po' di etologia più aggiornata, non credi?
E' con questo potrei chiudere autocompiacendomi con un C.V.D. ma io vorrei che in questo scambio non prevalesse l'arroganza e la volontà di dominio, ma la voglia di scoprire e disvelare assieme.
    
Grazie, ovunque tu sia arrivata a leggere

Egon Botteghi

Nuova legge sui richiami vivi: una vittoria a metà

Sacile, Sagra dei Osei-la gara canora

Il 23 luglio 2015 può, a tutti gli effetti, essere considerata una data emblematica: dopo un’attesa durata anni, il Parlamento Italiano si è pronunciato sulla questione della cattura dei richiami vivi da impiegare nella caccia alla migratoria.
È stato infatti approvato, in sede di Senato, il Ddl n. 1962, recante disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea (Legge Europea 2014).
L’approvazione dell’Articolo 21 della Legge Europea pone pertanto fine all’uccellagione con reti della pubblica amministrazione, e viene inoltre introdotto (con l’Articolo 22) anche il divieto di commercializzazione di avifauna selvatica viva dall’estero.

Art. 21.
(Disposizioni relative alla cattura di richiami vivi. Procedura di infrazione n. 2014/2006)
1. Il comma 3 dell’articolo 4 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, è sostituito dal seguente:
«3. L’attività di cattura per l’inanellamento e per la cessione ai fini di richiamo può essere svolta esclusivamente con mezzi, impianti o metodi di cattura che non sono vietati ai sensi dell’allegato IV alla direttiva 2009/147/CE da impianti della cui autorizzazione siano titolari le province e che siano gestiti da personale qualificato e valutato idoneo dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. L’autorizzazione alla gestione di tali impianti è concessa dalle regioni su parere dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, il quale svolge altresì compiti di controllo e di certificazione dell’attività svolta dagli impianti stessi e ne determina il periodo di attività».
2. I commi 1-bis e 1-ter dell’articolo 16 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, sono abrogati.

Art. 22.
(Divieto di commercio di specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio europeo. Caso EU Pilot 5391/13/ENVI)
1. La lettera cc) del comma 1 dell’articolo 21 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, e successive modificazioni, è sostituita dalla seguente:
«cc) il commercio di esemplari vivi, non provenienti da allevamenti, di specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio europeo degli Stati membri dell’Unione europea, anche se importati dall’estero».

autorizzando mezzi e metodi non vietati dalla Direttiva 2009/147/UE.

Ci siamo interrogati a lungo su questa legge che- va ricordato- scaturisce dalla Procedura di infrazione n. 2014/2006, avviata dalla Commissione europea ai danni dell’Italia in quanto nelle Regioni Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana la cattura di sette specie di uccelli (Columba palumbus, Turdus pilaris, Turdus philomelos, Turdus iliacus, Turdus merula, Vanellus vanellus e Alauda arvensis) mediante l’utilizzo di reti era stata autorizzata ed attuata in violazione della direttiva 2009/147/CE (‘direttiva Uccelli’) che invece vieta espressamente la cattura degli uccelli attraverso tali reti.
La prima riflessione che abbiamo fatto verte proprio su questa questione: il governo italiano si è visto costretto ad evitare la multa che sarebbe derivata da questa procedura d’infrazione, aperta a febbraio 2014 con una lettera di messa in mora del Commissario europeo all’ambiente Janez Potočnik al Ministero degli Affari Esteri.
Prenderne atto è, purtroppo, una magra consolazione. A voler essere franchi fino in fondo, se il governo avesse inteso porre per sempre fine al barbaro trattamento riservato ai richiami vivi, non avrebbe in primis avuto bisogno di attendere la messa in mora del Commissario europeo, e avrebbe, in secondo luogo, potuto vietare definitivamente (e coraggiosamente, aggiungiamo noi) non solo la cattura bensì l’impiego di questi uccelli nelle battute di caccia da appostamento, e non dando ai cacciatori la possibilità di continuare ad utilizzarli se provenienti da allevamento, o lasciando pericolosi spazi di interpretazione sull’uso delle reti.

Non a caso, infatti, il mondo venatorio decide, nei giorni seguenti all’approvazione del Ddl n.1962, di intervenire con dichiarazioni come questa:

“Le Associazioni Venatorie Federcaccia, Enalcaccia, Arci Caccia e ANLC, sottolineano come la norma, così come approvata, consenta l’utilizzo degli impianti di cattura da parte di privati, ad esempio per la cattura degli uccelli da destinare e/o cedere agli allevamenti.
E ciò anche quando, come gli storici “roccoli”, detti impianti siano dotati di reti verticali selettive e non lesive, dal momento che la Direttiva “Uccelli” non vieta in modo assoluto ogni tipo di rete così come confermato dal fatto che la Direttiva “Habitat”, non a caso, consente la cattura dei mammiferi con reti selettive.

Sicché per non perpetuare le solite incongruenze in danno dell’Italia, la lettura coordinata delle due direttive consente di affermare che l’art. 21 del D.D.L. n. 1962 non comporta alcuna limitazione ed è semmai destinato a recedere rispetto alla corretta e ragionevole interpretazione delle norme comunitarie.”

Vedremo naturalmente come la questione sarà affrontata nei prossimi mesi, ma abbiamo la sensazione che questa tanto attesa “vittoria” possa rivelarsi una vittoria a metà, anche alla luce di dichiarazioni come quella dei senatori del PD Massimo Caleo e Stefano Vaccari, rispettivamente capogruppo e segretario nella Commissione Ambiente :

“Con il nostro ordine del giorno, che è stato approvato da tutta la Commissione Ambiente e accolto dal Governo in 14° Commissione, chiediamo di chiarire meglio quali siano gli impianti consentiti, dal momento che la ‘Direttiva uccelli’ non ha inteso in alcun modo vietare l’uso di richiami vivi”. (…) “La Direttiva uccelli – spiegano i due senatori – stabilisce che gli uccelli possono essere prelevati in piccole quantità, in modo selettivo e non massivo, attraverso l’uso di determinate reti, quali per esempio quelle utilizzate per le attività di indagine ornitologica (in uso ad ISPRA) che consentono la cattura ma anche l’immediata liberazione delle specie non consentite.

Con il nostro ordine del giorno chiediamo pertanto al Governo di chiarire l’interpretazione del termine ‘impianti’ inserito nella legge europea. Gli impianti gestiti su autorizzazione regionale, infatti, soprattutto quelli a reti verticali, rappresentano elementi tipici e tradizionali in molte regioni, gestiti con professionalità e competenza e non comportano rischi di uccisioni di massa, proprio come previsto dall”articolo 8 della Direttiva”

Ecco già aprirsi-a quanto pare- nuovi scenari, ipotesi di metodi di cattura che aggirino il divieto, portando di fatto al mantenimento dello status quo.
I cacciatori, si sa, hanno sempre preferito gli uccelli catturati in natura, considerandoli molto più “efficienti” nel richiamo dei loro conspecifici durante le battute di caccia.
Per cui ci chiediamo se “fatta la legge” sarà trovato il solito inganno. I fatti ci insegnano come il divieto di compravendita di uccelli selvatici viventi in Europa non di allevamento possa essere ovviato attraverso pratiche illegali già in uso: la prassi di falsificazione degli anellini inamovibili, che dovrebbero identificare la provenienza dell’animale (come questo video dimostra) è molto diffusa e può vanificare qualsiasi possibilità di distinguo tra uccelli da allevamento ed esemplari catturati illegalmente, o di dubbia provenienza.
Cosa cambierà, poi, nella realtà delle fiere ornitologico venatorie? Quali effettivi benefici ne deriveranno per migliaia di uccelli da richiamo?
Nessun beneficio, perché gli uccelli da richiamo saranno ancora la “punta di diamante” di queste fiere, che, con la gara canora, continueranno a celebrare il mondo della caccia fingendo di celebrare il canto della natura.
Dal Ddl n.1962 è, infatti, del tutto assente la questione degli uccelli da richiamo utilizzati nelle fiere ornitologico venatorie, come per l’appunto la sagra dei Osei di Sacile. Alla fine, e questo naturalmente non è di poco conto, la nuova legge va a recepire solo quanto previsto dalla Direttiva comunitaria 2009/147/Ue che vieta l’uso di metodi non selettivi per la cattura degli uccelli, ma che non abolisce l’uso dei richiami vivi, come sarebbe sacrosanto auspicarsi in un paese che vuole definirsi civile.
Perché la vita di un uccello da richiamo, che sia esso impiegato in una battuta di caccia o in una gara di canto, è la stessa misera vita di un prigioniero.
I richiami vivi continueranno ad essere allevati, ad essere impiegati nella caccia da appostamento, continueranno a vivere un’esistenza che non è vita in gabbie anguste, nella penombra di uno scantinato, continueranno ad essere sottoposti a muta artificiale, ad essere indotti a credere che la stagione dell’amore coincida con la stagione venatoria, continueranno-appesi in batteria- a chiamare alla morte i propri fratelli.

Questa continuerà ad essere la loro condanna, e anche se il Ddl 1962 rappresenta in qualche modo un passo importante, crediamo-pensando alla prigionia di questi animali- che vi sia ancora così poco di cui essere felici.

mercoledì 5 agosto 2015

Lo spirito del grano in forma umana e animale - di Tamara Sandrin


Lo spirito del grano in forma umana e animale
Alcune riflessioni su Il ramo d'oro di James Frazer


di Tamara Sandrin


Recentemente ho ripreso tra le mani Il Ramo d'oro di Frazer e rileggendo alcuni capitoli centrali del volume, mi sono chiesta se non fosse insito nell'animo umano un sentimento così ancestrale e radicato, una distruttività, una ferocia inaudita e imperscrutabile, che abbia da sempre condizionato l'agire umano nei suoi rapporti con l'altro, anche prima della nascita nella mente dell'uomo del concetto di specismo. Frazer ci narra di tempi in cui l'uomo faceva parte della natura e la sua vita non valeva più di quella della belva o della giumenta o della spiga di grano. Tempi in cui l'uomo non si considerava ancora al centro dell'universo, tempi terribili in cui la divinità permeava ogni manifestazione della natura e che in essa palesava tutta la sua terrificante ferocia e violenza interspecifica.
Dall'analisi dei capitoli in cui Frazer descrive i riti connessi allo spirito del grano e alle altre divinità zoomorfe della vegetazione, riti e miti greci, frigi, egizi, siriani, rituali di popolazioni primitive (1) di ogni parte del mondo, usanze di chiara derivazione pagana dei contadini europei a lui contemporanei, possiamo evincere come, nell'incarnare la divinità, l'uomo e l'animale fossero sullo stesso piano in una parità, in un parallelismo, che sembrano ignorare lo specismo dell'uomo “civilizzato”.

Scrive Frazer:


per il selvaggio non esiste questa linea netta di demarcazione che noi tracciamo tra la specie umana e quella animale. Agli occhi dell'uomo primitivo molti animali appaiono simili, o finanche superiori a lui, non solo per la forza bruta ma anche per l'intelligenza; e se per scelta o per necessità, deve ucciderli, si sente in obbligo, per tutelare se stesso, di farlo nel modo meno spiacevole possibile sia per l'animale che per il suo spirito, e per gli altri animali della stessa specie, i quali si risentirebbero di un affronto fatto a uno di loro, quanto se ne risentirebbe il selvaggio se qualcuno offendesse o facesse del male a un componente della sua tribù.(2)

È ovvio ed è banale dirlo, il “progresso” e la “civilizzazione” hanno portato un allontanamento dell'uomo dalla natura, un superamento di pratiche superstiziose e religiose, ma non sono riusciti a placare l'istinto di dominio e distruzione che ci caratterizza: hanno semplicemente incanalato questa distruttività in un percorso obbligato stabilito per legge (anziché per religione), cristallizzando il pensiero antropocentrico invece di permettere un'evoluzione verso forme di empatia meno esclusive.

Secondo Frazer è comune in quasi tutte le società primitive credere nella madre del grano o spirito del grano (che si manifesta sia in forma maschile/femminile che umana/animale): “la fantasia popolare [...] è incapace di concepire qualcosa di totalmente inanimato” perciò crede che ogni pianta o animale sia animato da uno spirito (animismo).

L'uomo primitivo pensa che questo spirito dimori nel grano e che cerchi di nascondersi in esso il più a lungo possibile, fin quando, all'epoca della mietitura, deve fuggire davanti alle falci, fino a rifugiarsi nelle ultime spighe, per poi trasfigurarsi nell'essere più vicino a quelle spighe: può essere lo stesso mietitore al lavoro nel campo, oppure uno straniero di passaggio o, infine, un animale che fugge spaventato dal suo ultimo nascondiglio. Perciò si può affermare che lo spirito del grano si manifesta non solo in forma vegetale, ma anche in forma umana e animale: per “l'uomo primitivo, al quale i magici mutamenti di forma appaiono perfettamente credibili […] identificare lo spirito del grano con un animale è come identificarlo nello straniero di passaggio.

Lo spirito del grano in forma vegetale e umana
Presso molti popoli contadini europei erano ancora in voga, fino a un centinaio di anni fa (fino alla meccanizzazione dell'agricoltura), tutta una serie di rituali e cerimonie per festeggiare la fine della mietitura. Era usanza abbastanza comune riservare un trattamento particolare alle ultime spighe tagliate o all'ultimo covone da trebbiare: con essi venivano foggiate trecce, bamboline, fantocci (spesso decorati con nastri, fiori e abiti femminili) che venivano poi chiamati “madre/fanciulla/sposa del grano”, o con altri appellativi simili, e poi festeggiati oppure maltratti a seconda delle usanze del luogo. Identica sorte toccava anche all'uomo che tagliava le ultime spighe o alla donna che legava l'ultimo covone. Perciò Frazer afferma che, in quei frangenti, quelle persone incarnavano lo spirito del grano. Come dicevo, a seconda dei luoghi, potevano essere festeggiati e portati in trionfo, oppure maltrattati o addirittura malmenati (o gettati in acqua, derisi, ecc.): naturalmente nelle società contadine moderne non si arrivava a uccidere il rappresentante umano dello spirito del grano, ma il linguaggio usato e i gesti sembravano indicarne il desiderio.
Ma in altre civiltà, presso altri popoli, in altri tempi, i sacrifici umani alla vegetazione erano diffusi e spesso particolarmente subdoli e feroci: la vittima prescelta molte volte era trattata con estrema riverenza e riguardo, nutrita e adorata come vera e propria rappresentazione della divinità per mesi (se non addirittura per anni), finché al momento stabilito veniva sacrificata, dopo aver subito indicibili torture.
Particolarmente efferati e numerosi i sacrifici umani in Messico (dove esisteva una stretta correlazione tra l'età della vittima e lo stadio di maturazione del mais, perciò venivano sacrificati anche dei neonati), presso gli indiani Pawnee, a Lagos (Guinea), presso i Marimo della Beciuania, i Bagobo delle Filippine, presso alcuni popoli dell'India (Lhota Naga, Gond, Oraon) e del Bengala (Khon o Kandh).(3)
In alcuni luoghi, dopo la soppressione dei sacrifici umani imposta dalla legge, si fece ricorso a vittime “inferiori”, in altri luoghi, invece, sono continuati clandestinamente (per es. in alcune zone dell'India anche durante la dominazione britannica).

Al corpo (carne e sangue) della vittima sacrificale, in quanto incarnazione della divinità, veniva attribuito il potere di far crescere i raccolti (potere fertilizzante): le sementi venivano spruzzate con il sangue, le parti del corpo sepolte nei campi dei partecipanti per assicurarne un prospero e abbondante raccolto.

Quanto detto fino finora, ci riporta in ambito mitologico principalmente a tre miti, che ricorderemo brevemente:
1. il mito di Osiride
2. il mito di Demetra e Persefone
3. il mito di Litierse

1. Nel mito di Osiride e nelle sue raffigurazioni (iscrizioni e altre rappresentazioni pittoriche) possiamo rintracciare vari aspetti che riconducono allo spirito del grano. Innanzitutto secondo la mitologia egizia, fu Osiride a insegnare al suo e agli altri popoli i segreti dell'agricoltura e della viticoltura, cosa che lo configura come divinità agreste. Inoltre il fatto che fosse ucciso e fatto a pezzi e ogni parte del suo corpo venisse poi seppellita in diversi luoghi dell'Egitto, ricorda l'antica usanza di compiere sacrifici umani (in cui la vittima era l'incarnazione dello spirito del grano) e di spargerne le membra sui campi per fertilizzarli. Un'altra versione del mito narra, invece, che Iside ricompose il corpo del fratello-sposo raccogliendo tutte le sue membra e riportandolo poi alla vita come signore dei morti (il legame tra divinità della morte e divinità agreste ricorda immediatamente il mito di Persefone). In alcune raffigurazioni, poi, si può vedere il cadavere di Osiride da cui nascono spighe di grano: “il dio del grano faceva nascere le spighe dal suo corpo; offriva il suo corpo per nutrire il popolo; moriva affinché la sua gente vivesse”. Il mito di Osiride, in quanto sovrano dell'Egitto, potrebbe infine inserirsi nell'arcaica tradizione di sacrificare il re-dio (rappresentante divino) di ucciderlo e farlo a pezzi (identica sorte toccata, secondo le leggende, a Romolo, Penteo, Licurgo, Halfan il nero, etc.).
2. Come abbiamo appena rilevato per Osiride, anche Persefone (fanciulla delle messi) veniva identificata sia come divinità agreste (figlia di Demetra, madre del grano) che dell'oltretomba (sposa di Ade): in particolar modo il fatto che ella vivesse per sei mesi sotto terra e che in primavera risorgesse quasi a nuova vita per vivere con la madre sulla terra, fa immediatamente pensare al ciclo vitale del grano, che veniva seminato in autunno per germogliare in primavera.

3. Litierse, re di Frigia, era solito invitare a sontuosi banchetti gli stranieri di passaggio per poi sfidarli nella gara della mietitura, al termine della quale uccideva lo straniero e lo gettava nel fiume avvolto da spighe. Secondo Frazer lo straniero ucciso da Litierse incarnava lo spirito del grano, e la sfida della mietitura ricorda le gare ingaggiate dai braccianti agricoli europei per non restare indietro rispetto ai compagni e tagliare così gli ultimi steli di grano. Anche nella Frigia, così come nell'Europa moderna, l'antica usanza di uccidere un uomo sui campi o sull'aia era sicuramente divenuta finzione prima dell'età classica, ma come abbiamo visto non accadeva così in altri luoghi del mondo.

Lo spirito del grano in forma animale
Via via che il grano cade sotto la falce, gli animali che si nascondono tra gli steli fuggono, arretrano, fino a ritrovarsi tra le ultime spighe; a quel punto, per lo stesso meccanismo allegorico che abbiamo visto, è facile far coincidere l'animale che sbuca da queste spighe con lo spirito del grano. In quanto suo rappresentante viene quindi sacrificato realmente o figuratamente (con effigi di pane o attraverso un rappresentante umano); nell'Europa moderna ritroviamo molti esempi: “via via che il grano cade sotto la falce l'animale fugge […] colui che taglia l'ultimo grano […]  prende il nome dell'animale” e i mietitori lo trattano come tratterebbero l'animale (lupo, gallo, lepre, gatto, capra, bue, cavallo, maiale, etc.) (4) in un assoluto parallelismo fra le due forme umana e animale dello spirito. Anche le divinità antiche sono spesso legate ad animali sacri (capra: Demetra, Dioniso, Pan, satiri e sileni; maiale: Persefone, Demetra, Osiride, etc.).
Lo spirito incarnato in un animale viene ucciso, la bestia divina mangiata (e il suo sangue bevuto) dai mietitori e da tutta la comunità, esattamente come accadeva con i sacrifici umani.
Lo spirito del grano nelle sue manifestazioni zoomorfe o antropomorfe veniva ucciso, realmente o figuratamente, nella persona del suo rappresentante per essere poi trasformato in pasto sacramentale: carne e sangue reali o figurati (comunione-eucarestia).

I miti cambiano ma le tradizioni restano; gli uomini continuano a fare quel che i loro padri fecero prima di loro anche se il motivo per cui i padri agivano in tal modo è ormai da tempo dimenticato. La storia della religione è un lungo tentativo di conciliare usanze antiche con motivazioni nuove, di trovare una valida teoria per un'assurda pratica […] il mito è posteriore alla tradizione […]

Questo pasto sacramentale, presso le popolazioni agricole, dove la consuetudine del deicidio era ancora ben radicata, si configurava anche come pasto mistico: mangiando la carne di un animale o di un uomo, anche quando esso non è incarnazione della divinità, si possono assimilare non solo le sue caratteristiche fisiche (forza, resistenza, etc.) ma anche e soprattutto morali e intellettuali.
Da qui l'usanza diffusa di mangiare le carni dei morti (nemici, parenti e affini) per assumerne il coraggio, la saggezza e le altre qualità per cui le persone si erano distinte in vita.

Alcuni culti animali, invece, non sono legati all'agricoltura e allo spirito del grano ma probabilmente risalgono a società ancora più arcaiche quando l'uomo era ancora dedito alla caccia e alla pastorizia.
Questi culti ricordano molto da vicino i sacrifici umani messicani e indiani: l'animale (esemplare è il culto dell'orso sacro presso gli Ainu in Giappone) veniva allevato come un “prezioso piccolo dio”, in vita riceveva attenzioni, offerte e preghiere e così anche dopo la sua uccisione, che avveniva in un luogo sacro secondo un rituale ben preciso, che aveva lo scopo di mettere in evidenza il carattere di essere superiore, di divinità minore, dell'animale. Frazer esamina diffusamente il culto e l'uccisione dell'orso sacro(5), ma quello che più mi interessa è cogliere le analogie con altre cerimonie celebrate in altri luoghi e in altri tempi.
L'orso veniva catturato quand'era ancora un cucciolo molto piccolo, veniva allattato (a volte anche al seno di una balia) e allevato con amore e dedizione da una famiglia o da tutto il villaggio; una volta cresciuto veniva portato in processione in ogni casa, perché portasse con la sua benedizione ricchezza e abbondanza. Infine veniva ucciso e scuoiato, a volte un sacerdote o una vecchia ne indossavano le pelli, le sue carni venivano divise tra tutti gli abitanti del villaggio e i suoi resti erano trattati con riverenza e ricevevano offerte e preghiere.


Presso gli indiani Pawnee veniva scelta come vittima una fanciulla Sioux di quattordici o quindici anni che, dopo essere stata curata e nutrita per circa sei mesi, in primavera veniva uccisa e fatta a pezzi, dopo che aveva visitato ogni wigwam (dove riceveva un dono). Il suo cuore veniva mangiato dal capo del villaggio e col suo sangue si bagnavano i chicchi del mais pronti per la semina.

In Messico, durante la festa per Chicomecohuatl (la dea del mais) una bambina, addobbata con gli abiti e le insegne della dea, veniva portata in trionfo per ogni casa dove le offrivano semi, fiori, frutta e sangue umano rappreso. Infine la decapitavano raccogliendo il suo sangue con cui aspergevano tutte le offerte vegetali che aveva ricevuto, la scuoiavano e un sacerdote indossava la sua pelle e i suoi abiti, continuando le danze che avevano accompagnato quasi tutta la cerimonia.
Identica devozione, identica compassione e identica ferocia sono riservate sia a uomini che ad animali, perché identica è la percezione che ha di loro l'uomo primitivo.
Questi racconti raccapriccianti hanno in comune gesti, rituali e intenti: con l'uccisione della vittima umana o animale si intende non solo offrire un sacrificio ad una divinità, non solo uccidere la divinità stessa per preservarla dalle brutture della vecchiaia(6), ma anche uccidere la stessa divinità per assumerne gli straordinari poteri. Queste popolazioni si aspettano di veder risorgere le virtù di queste creature semi-divine, per la loro incrollabile fede nell'immortalità spirituale e nella resurrezione anche corporale degli uomini e degli animali uccisi (ritorna ancora una volta il parallelismo uomo-animale).

Il primitivo estende alla creazione animata in genere la teoria che spiega la vita sulla base di un'anima immanente e immortale, dimostrandosi più generoso, e forse più logico, dell'uomo civilizzato il quale, comunemente, nega agli animali quel privilegio di immortalità che rivendica per se stesso. Il selvaggio non ha tanto orgoglio; egli ritiene che gli animali posseggono sentimenti e intelligenza come l'uomo, e, come l'uomo, anime che sopravvivono quando il corpo muore, e che vagano come spiriti disincarnati o rinascano in forma animale.
Dal momento che, per il selvaggio, tutte le creature viventi sono sullo stesso piano dell'uomo, l'atto di uccidere e mangiare un animale assume un significato molto diverso dal nostro.

Potremmo dire, sulla scorta di Todorov (7), che fin dalla notte dei tempi tutti i popoli hanno conosciuto la follia omicida e mietuto le loro vittime, e che questa potrebbe essere una caratteristica fondamentale delle società a dominanza maschile (in effetti non ne conosciamo altre). Quello che, però, distingue queste società primitive dalla nostra è la motivazione che sta alla base delle uccisioni. Todorov distingue tra società del sacrificio e società del massacro, in quanto il sacrificio è un delitto religioso, come abbiamo visto anche negli esempi tratti da Il ramo d'oro, fortemente regolato, in cui la vittima, il sacrificato, ha grande importanza in quanto identità e individualità. Il sacrificio è compiuto alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, davanti alla legge (al re, capo tribù, ecc.), in luoghi sacri, e fonda la forza della società, in quanto preponderante sull'individuo, ma nonostante tutto viene quasi sempre accompagnato da un timore reverenziale verso la vittima e la divinità. Il massacro invece viene compiuto in luoghi nascosti, lontani dalla vista, luoghi in cui spesso è difficile se non impossibile far rispettare le leggi, perciò testimonia, in un certo senso,  l'indebolimento del tessuto sociale e il decadere dei principi morali del gruppo. Le vittime di un massacro, umano o animale, vengono sterminate senza rimorsi perché la loro individualità non conta, non è pertinente, non hanno alcuna funzione sociale né come individui, né come vittime. In base a questa distinzione possiamo affermare che la nostra società, che continua a perpetrare uccisioni animali a ritmo insostenibile, si configura sicuramente come società del massacro.
Scrive Todorov (parlando ovviamente dei conquistadores spagnoli, ma il discorso può tranquillamente essere applicato anche alla nostra società):

… il legame sociale, già indebolito, si sfalda e rivela non una natura primitiva (la belva assopita in ciascuno di noi), ma un essere moderno, a cui appartiene l'avvenire, che non ha alcuna morale e che uccide perchè e quanto gli piace. La “barbarie” degli spagnoli non ha niente di atavico o d'animale; è interamente umana e preannuncia l'avvento dei tempi moderni.

I tempi moderni preannunciati dalle azioni degli spagnoli sono arrivati e, come si poteva ben prevedere, non hanno portato alcun miglioramento nel nostro rapporto con l'altro: nelle società primitive del sacrificio, così come nelle società moderne del massacro, il rapporto con l'altro, uomo o animale, è sempre improntato su una base di dominio e distruzione.

Nelle società del sacrificio tributare rispetto a un individuo equivale rispettare e tutelare l'intera specie, in quanto, secondo Frazer, il concetto di esistenza della specie e dell'individuo non sono distinti nella mente del primitivo: i pericoli che possono minacciare e distruggere l'esistenza dell'individuo sono gli stessi che minacciano e distruggono la specie.
Dato che il selvaggio non può risparmiare tutti gli individui cerca di placare le sue vittime, le loro anime immortali e i loro parenti con scuse, preghiere, offerte e stratagemmi, per esempio fingendo che la morte sia stata accidentale o che sia avvenuta per colpa di qualcun altro.
Uccidere sembra essere per l'uomo primitivo una necessità, non tanto per una questione alimentare quanto per un “obbligo” religioso, poiché si inserisce in una dimensione panica della natura, in cui l'uomo, come abbiamo visto, non si è ancora autoproclamato “centro del creato”, ma si pone sullo stesso piano di piante e animali. Perciò l'uccisione di un animale è spesso accompagnata da un sentimento di paura (di subire ritorsioni), da un vago senso del peccato (di ubris, di offesa nei confronti della divinità), ma anche da un senso di colpa.
A questo proposito è interessante ricordare il sacrificio ateniese detto “l'assassinio del bue”, la bouphonia: sull'altare di Zeus Polieus venivano posti orzo, frumento e focacce di cereali, poi si facevano girare attorno all'altare due buoi, il primo che mangiava le offerte veniva visto come l'incarnazione del grano che si appropriava di ciò che già gli apparteneva e, in quanto animale divino, veniva sacrificato, colpito con un'accetta, sgozzato con un coltello (entrambi “benedetti” con acqua recata dalle portatrici d'acqua), scuoiato e la carne veniva divisa con tutti i presenti. Con la sua pelle cucita e riempita di paglia veniva foggiato un simulacro da aggiogare ad un aratro.
Al termine di questa complessa cerimonia, si svolgeva nell'aeropago un vero e proprio processo per designare il colpevole dell'assassinio del bue, durante il quale tutti gli “attori” coinvolti (le portatrici di acqua, gli affilatori, i macellai etc.) si scaricavano la colpa l'un l'altro, finché il boia e il macellaio indicavano come colpevoli l'accetta e il coltello, che infine venivano gettati in mare. Tutti i particolari della cerimonia, dal nome bouphonia fino al processo, indicano che il bue non fosse solo una semplice vittima, ma una creatura sacra la cui uccisione era considerata sacrilega e omicida al pari, se non di più, dell'uccisione di un uomo.(8)
Il culto degli animali, in quanto incarnazioni divine (dello spirito del grano e di altre divinità agresti), presso le popolazioni primitive, assume due aspetti che possono sembrare antitetici: gli animali sono venerati perciò non vengono uccisi e/o mangiati se non in rare e solenni occasioni, per ottenere protezione o aiuto; d'altra parte, però, sono venerati proprio perché vengono uccisi e/o mangiati, in quanto fonte di cibo o come escamotage per evitare il male (capro espiatorio).
In ogni caso il deicidio richiede un'immediata espiazione per ottenere il perdono dell'intera specie per il maltrattamento e l'uccisione di un esemplare.

La caratteristica saliente dei cerimoniali e dei riti descritti da Frazer è la ferocia, e tutti sembrano avere fondamentalmente due scopi:

  • propiziatorio per aumentare i raccolti (paura della carestia)
  • riparatorio per placare gli spiriti e gli dei (paura della vendetta).


Quindi, sulla base dell'analisi dei riti e dei miti esposti ne Il ramo d'oro, che ho scelto come esempi, prima della concettualizzazione dello specismo e dell'antropocentrismo sembrano dominare nell'animo umano due sentimenti in apparenza contrastanti: l'aggressività, o distruttività, e la paura.
L'uomo è da sempre (sia in senso ontogenetico che filogenetico) una creatura terrorizzata, costantemente in preda a una profonda angoscia, a cui reagisce in modi a volte incomprensibili, molto spesso irrazionali e quasi sempre aggressivi.
L'oggetto di questa paura che attanaglia l'uomo, della sua distruttività, è uno solo: l'altro da sé, che spaventa in quanto diverso e imperscrutabile e diventa quindi oggetto da dominare o annientare.
E poco importa, come abbiamo visto, se l'altro sia un uomo o un animale.


NOTE
(1) Non starò qui a discutere l'uso quanto meno opinabile che Frazer fa dei termini primitivo, selvaggio, civilizzato, etc., che denotano certamente un giudizio legato alla cultura colonialista dell'Inghilterra fine Ottocento inizio Novecento. Chiedo venia perciò se a volte nel testo userò questi termini anche fuori citazione.
(2) Tutte le citazioni, salvo dove diversamente indicato, sono tratte da Il ramo d'oro di James Frazer. Il grassetto è mio.
(3) Per la trattazione dei sacrifici umani cfr la sezione 3. Sacrifici umani per le messi del cap. XLVII. Litierse
(4) Cfr. il cap. XLVIII. Lo spirito del grano come animale
(5) Cfr. la sezione 5. Uccisione dell'orso sacro del cap. LII. Uccisione dell'animale divino
(6) Le vittime sono in genere giovani e/o nel pieno delle forze e vengono quasi subito sostituite da un'altra giovane vittima come incarnazione della divinità.
(7) Cfr. Tzvetan Todorov, La conquista dell'America, parte terza. Amare, cap. Comprendere, prendere, distruggere
(8) Secondo Varrone, in Attica, in tempi remoti l'uccisione dl bue era punita con la pena capitale.

sabato 1 agosto 2015

Il silenzio assordante di chi non vuol sentire


L'avvicinarsi della Sagra dei osei di Sacile è, come di consueto, caratterizzato dalle dichiarazioni di rito degli organizzatori, ed è proprio in questo periodo che il nostro lavoro si fa più complesso: stiamo organizzando la manifestazione di protesta, pubblicando riflessioni, approfondimenti, materiale video e fotografico, stiamo facendo informazione. Ma ancora una volta la Signora Busetto, che rileva come dal fronte dei diritti degli animali arrivi un "silenzio assordante", finge di non avere orecchi per ascoltare.
Con quale pretesa quindi ogni anno, come un disco inceppato, adopera la frase di circostanza per richiedere un confronto?
Riportiamo il commento a cura di Cristina, una utente del web, che ben inquadra l'insensatezza di questa richiesta: "Incredibile la richiesta di dialogo fra gli organizzatori della sagra e i contestatori! Su quali temi potrebbe mai vertere l'eventuale "dialogo"? Ma questi signori non capiscono che se una pratica è considerata ormai "reato" da una parte della società, l'unico dialogo possibile è quello relativo alla dismissione della pratica ritenuta moralmente inaccettabile?. Di cosa si dovrebbe discutere, altrimenti? Ne facciano almeno un accenno..."
Con ogni evidenza, a chi organizza e sostiene questa sagra non interessano i contenuti e le tante testimonianze (che ci sbattono in faccia la triste realtà della Sagra dei osei).
Ricordiamo però che questa non è una battaglia mediatica a suon di slogan: stiamo parlando dell'infinita sofferenza di migliaia di schiavi; questi sono i contenuti, queste sono le grida che gli organizzatori della Sagra dei Osei di Sacile continuano a fingere di non sentire.
La Signora Busetto sceglie, ogni anno, di tacere sul centrale ruolo giocato dal mondo della caccia alla Sagra dei Osei (che, non andrebbe mai dimenticato, è una fiera ornitologico-venatoria e non un semplice, innocente evento per famiglie): è questo, a nostro avviso, il vero "silenzio assordante".

Vi invitiamo a prendere visione dell'ultima investigazione tra ciò che avviene sotto gli occhi di tutti, ogni anno, in eventi come questo, pubblicata in questi giorni.
Le immagini sono state girate in una delle tante fiere ornitologico-venatorie del triveneto. Incontreremo gli stessi commercianti di vite anche quest'anno a Sacile.
La scena non cambia, gli individui si, nuovi schiavi, vecchie tradizioni da condannare.

Cos'è una fiera ornitologico venatoria


Cos'è una fiera ornitologico venatoria?
Un mercato di animali, una distesa di gabbie. 
La celebrazione della caccia, la mercificazione delle sue vittime.
Un'investigazione tra ciò che avviene sotto gli occhi di tutti, ogni anno, in eventi come questo. 
Abbiamo girato queste immagini girate alla fiera degli uccelli di Arzignano (VI), una delle tante, tristi, fiere ornitologico-venatorie d'Italia.



"E' veramente difficile trovare le parole che argomentino queste situazioni in cui sofferenza e spettacolo sembrano trovare la loro dimensione naturale e così legittimarsi agli occhi del pubblico.
La complicità degli spettatori nel vedere la vita bandita e godere dei corpi dissimili esposti è purtroppo la stessa attraverso cui si condivide in questi giorni la gogna schiavista degli inumani chiamati eufemisticamente'migranti' o quella riservata a tutta quella soggettività sfruttata e discriminata in nome del popolo sovrano. Lo stesso popolo che paga per specchiarsi
nell'ANIMALE e giustificare le 'mostre delle atrocità'.
A queste 'bestie che parlano'- per citare la Ortese- sottraendosi in questo modo al bestiario dello spettacolo, va tutto il mio commosso sentimento di prossimità al dolore e alla gabbia. Le rondini migrano ancora tra l'Europa e l'Africa."

                                                                                     Emilio Maggio