martedì 29 dicembre 2015

Esplodere un petardo - di Rodrigo Codermatz


E' sempre un piacere ospitare Rodrigo Codermatz sul nostro blog. Questa volta Rodrigo fa alcune importanti riflessioni sulla questione dei botti di capodanno, argomento più che mai attuale e molto dibattuto proprio in questi giorni, anche nella nostra regione.   

Un aspetto della mercificazione e della reificazione totale della nostra società e del nostro tempo è l'assoluto e acritico alienare il cambiamento, il progresso e lo sviluppo da noi stessi e relegarlo e confinarlo nel mondo delle cose: ossia siamo giunti al punto di intendere e perseguire il miglioramento solo riguardo all'utilizzabile, all'oggetto di consumo o ad uno stato o assetto in cui noi ci ritroviamo gettati.
Nel primo caso abbiamo il comfort, nel secondo una posizione: da una parte foraggiamo i tecnocrati, dall'altra i produttori.
In entrambi i casi noi ci auto-estromettiamo dalla facoltà di cambiare perché nella tecnocrazia ci affidiamo ciecamente agli specialisti, alla tecnica, alla ricerca, nella produzione agli alti e bassi del mercato.
In sostanza oggetto o apparecchio tecnologico sempre più confortevole e prestante e successo sono oggi gli unici metri per misurare sviluppo e progresso umano per la persona media: quando abbiamo l'ultima tecnologia in mano e un bel posto sotto il sedere, siamo tranquilli e la nostra preoccupazione più grossa è ottenere o mantenere questo assetto conveniente.
Il progresso è l'entropico assestarsi delle condizioni in cui ci ritroviamo e noi ci giriamo e rigiriamo cambiando fianco e aggiungendo cuscini per dormire meglio; sì, perché è proprio un letargo questo nostro accomodarci e convivere con la massima tecnologia da una parte e la ruota di pietra di molte nostre abitudini, consuetudini e tradizioni dall'altra: queste si ripresentano ritualmente nella loro periodicità e immortalità e non c'è la più lontana speranza che possano essere messe in questione da parte nostra. Tradizioni e abitudini che ci bloccano con i loro tentacoli, non ci lasciano andare ma ci trattengono a sé: e mentre il mondo nei suoi distruttivi e catastrofici brancolamenti sta ormai rantolando e parla alla nostra coscienza, noi continuiamo miopi e sordi a gingillarci in primitive usanze e in comportamenti infantili.
Che dire allora oggi, alla vigilia delle festività, ad un uomo, un padre, un adulto, che si appresta ad acquistare dei botti e dei petardi quando gli si continua insistentemente a ripetere che son dannosi e mietono ogni anno vittime e gravi menomazioni tra uomini e animali?
Che dire se non invocarlo per l'ennesima volta di crescere e maturare, di rendersi finalmente consapevole e responsabile dei suoi comportamenti, di dedicarsi a qualcosa di più edificante, di dare un seppur minimo contributo ad uscire dalla più completa barbarie e inciviltà; poiché se ad un individuo viene detto che un comportamento è pericoloso e nocivo e continua imperterrito nel suo vizio è evidente che lo fa perché non crede che la disgrazia gli possa capitare in prima persona: lascia, in poche parole, che a farsi male siano gli altri.
E se è un genitore, a maggior ragione lo pregheremo affinché presenti ai figli un modo diverso di vivere, di giocare, di divertirsi, festeggiare, un modo diverso di approcciarsi e rapportarsi al mondo e ai suoi inquilini.
Ma abbiamo visto prima quanto l'individuo sia refrattario al cambiamento, come spesso deleghi l'evoluzione e lo sviluppo solo a dei processi senza coinvolgere anche la scelta personale; e a lavarsi le mani sono soprattutto coloro che, al contrario, dovrebbero responsabilizzare ed educare e che ora si aspettano forse la mia filippica contro venerabili e dinastiche usanze: no! La storia serve l'ideologia e la tradizione mentre noi dobbiamo invece guardare al nostro presente, rompere con il passato e abbozzare nuove traccie e traiettorie; non è importante avere esempi ma essere esempi e la nostra storia e la nostra cultura non possono esserlo. Il nostro passato ci ha tradito e non ha parlato come doveva, fino in fondo!
Chiediamoci, invece, che gusto c'è nell'esplodere un petardo.
Molti come me non l'hanno mai fatto neppure da bambini perché non erano interessati, forse ne erano impauriti o preferivano altre forme di divertimento; altri lo continuano a fare anche da adulti ammettendo che “fare i botti e tirar petardi” gli ricordano le vacanze di Natale della loro infanzia quando si aveva il permesso di uscire e stare un po' di più con gli amici; soprattutto il piacere di stare in compagnia, di fare “gruppo”; il “fare i botti” era il momento in cui la “banda” riusciva finalmente a riunirsi e aveva un senso perché lo si faceva assieme, in gruppo: farlo da soli e isolatamente non aveva alcun senso, non c'era nessun gusto.
Rifacendolo ora con i figli è come coinvolgere questi nella propria infanzia e in questi riprenderla affinché si annulli lo iato generazionale e rimanga infine un vissuto di continuità.
Pratica “tribale” di appartenenza ad una banda, come primitivo istituto normativo e processo invasivo di socializzazione forzata che emargina ogni possibile rimanere soli nella più propria possibilità, che prende forza dal necessitarsi reciproco di tante individualità insicure o disattese che spesso sfocia in impulsi compensatori che possono andare dall'eccitazione a una scarica di tensione, come la risata isterica dopo un forte e improvviso spavento (effetto montagne russe), al piacere di “aggredire” l'altro a sorpresa, al vero e proprio sadismo o ancora al piacere di mettere sotto-sopra l'ordine del silenzio, smuovere l'aria con un treno impazzito di urti sonori, piacere di esplodere e riverberarsi in mille eco, disperdersi nel mondo tra gli altri, brivido dell'inatteso e dell'improvviso: potremmo a pieno titolo iscrivere questo fenomeno nel “bullismo” quale sco-ordinata e disorganizzata forma di incanalare e intenzionare l'innata pulsione al movimento (la nostra originalità), al cambiamento, a modificare noi stessi: spreco e improduttivo investimento di forze che potrebbero essere altrimenti espresse in creatività o pensiero dialettico e invece si manifestano spaventando, terrificando, nuocendo, ledendo, uccidendo (sottolineo sempre il carattere cruento e necrofilo della nostra società).
Pulsione al movimento e al cambiamento che la cultura, tramite la sua ancilla, la tradizione, deforma o reprime in noi ma che noi, al punto di sviluppo e progresso di cui andiamo tanto fieri, dovremmo saper sublimare diversamente, con maggiore responsabilità e senso critico e soprattutto col dovere morale di chiederci se tutto ciò può essere inteso come accettabile anche nella società non umana che noi, con queste pratiche, lediamo.
Invece più che mai in questi giorni, in risposta alla campagna “No ai botti di Capodanno”, si moltiplicano su Facebook pagine e profili che inneggiano e istigano alla violenza sugli animali soprattutto domestici con frasi del tipo “esplodi un cane salva un petardo”contro i quali non si può fare niente poiché “la pagina risponde agli standard di comunità di Facebook”.  
L'immaginario violento che vi si ritrova mi riporta alla mia infanzia, alla mia banda, o per meglio dire alla banda di mio fratello maggiore alla quale io non appartenevo se non come suo fastidioso fardello, in cui la vecchia storia (leggenda metropolitana) di aver sventrato un gatto con un petardo era una vanteria per poter assurgere al comando della banda: per fortuna, che io sappia, nessuno l'aveva e l'avrebbe mai fatto.
Un'aggressività tipicamente epistemofilica, cifra metonìmica di una condizione regressa in cui nell'individuo convergono da una parte un'aggressività volta contro la società che lo abbandona e dall'altra un'aggressività contro la stessa società che l'ha reso regolare, normale, pulito, puntuale, che lo obbliga a ritenere e sublimare, a procrastinare, una società che “evira”; epistemofilica perché quest'aggressività non solo vuole appropriarsi della società ma anche sventrarla.
Purtroppo spesso tale aggressività non rimane confinata nei seppur pericolosi deliri di veri e propri poveri mentecatti e balordi che Facebook protegge e lascia vaneggiare; sotto diverse forme ricompare  in ogni angolo della nostra città, sullo schermo, per strada, nelle scuole: per esempio, tra i vari modi di rielaborare e rendere socialmente accettabile notevoli quantità di aggressività e sadismo è farne uno sport o una tradizione come, ad esempio, quella dei “botti di Capodanno”.  

                                                                                  
Rodrigo Codermatz

lunedì 21 dicembre 2015

Morire dentro lavorando...per sport

Butteri con vacche maremmane negli anni 50
foto: 
Wikipedia


"World Association for Working Equitation" è un'associazione che promuove la competizione sportiva tra stili tradizionali di monta da lavoro usato in diversi paesi.

Messaggero Veneto, 20 dicembre 2015


Il cerchio si chiude.

Dal cavallo domato con metodi coercitivi e spesso brutali per fini principalmente agricoli o comunque di utilità antropocentrica, all'equitazione sportiva, passatempo per ricchi e potenti annoiati, con addestramenti via via sempre più "dolci" nella forma ma ancora più brutali nel condizionamento psicologico.

Nella Working Equitation è il peggio dei due mondi che si unisce: un addestramento sottile (per dormire bene di notte, certo!) ma un condizionamento che riduce il cavallo ad una caricatura impotente e che richiede allo stesso tempo performance di precisione, ma finimenti e monte che per qualche insano desiderio dell'uomo, devono richiamare quelle dei "nostri antenati" che lavoravano la terra o dominavano il bestiame.


Tori con mandriano in Camargue
foto: Wikipedia


Tutto questo castello costruito sullo sfruttamento, lascia uno strascico di domande: in primo luogo, cosa vogliono i cavalli?
Inoltre, perché far pagare loro il prezzo delle psicosi identitarie dell'uomo?

Andrea Gaspardo per AFVG 

sabato 19 dicembre 2015

La funzione pedagogico imperial-specista del giocattolo - di Rodrigo Codermatz

Diamo il nostro affettuoso benvenuto a CaVegan, il blog degli amici Rodrigo e Tamara,
pubblicando questo interessante e -considerata la prossimità alle feste natalizie- calzante approfondimento di Rodrigo, ringraziandolo per averci concesso di ospitare queste riflessioni
anche sul nostro blog.
Buon lavoro a CaVegan da tutti noi!



La funzione pedagogico imperial-specista del giocattolo
di Rodrigo Codermatz


Fonte: https://cavegan.wordpress.com/2015/12/14/la-funzione-pedagogico-imperial-specista-del-giocattolo/


Passeggio per la città e osservo la vetrina di un negozio di giocattoli: una linea di una nota marca riproduce modellini delle più invasive e perniciose attività umane volte allo sfruttamento e alla morte animale; ecco allora pescatori in un tranquillo fiume canadese, scene di caccia alla marmotta, safari africani e poi molte realtà quotidiane come lo zoo, il circo, il campo cinofilo e l’addestramento dei cani, c’è addirittura il bracconiere in quad. Più in là il maneggio e, infine, la ciliegina sulla torta: un allevamento con le mucche costrette alla mangiatoia.


Mi rendo conto più che mai che la società ha scelto per il bambino il suo nuovo debole: l’animale va sostituendo pian piano il povero indiano delle nostre vecchie scorribande nei campi o per le vie del paese vestiti da cow-boy.

Osservo bene questi giocattoli con incredulità: stiamo mettendo nelle mani dei nostri bambini affinché ci giochino, presentiamo alla loro fantasia e immaginazione degli allevamenti, dei maneggi, delle battute di caccia, dei safari, dei delfinari, dei circhi, degli zoo! Ma abbiamo a cuore le loro vite, il loro futuro o lasciamo che il sistema ce li trasformi in automi devastatori, distruttori, in veri e propri serial-killer?

Ci rendiamo conto cosa vuol dire far giocare un bambino con un allevamento, con una serie di mucche messe in fila come rotelle di un ingranaggio? Ci rendiamo conto cosa vuol dire trasformare in gioco un’incursione venatoria in una foresta tropicale, la cattura e la deportazione se non la stessa uccisione in loco di diverse specie animali? L’imprigionamento di specie abituate a muoversi, nuotare e volare in uno spazio di centinaia di chilometri ci è presentato ideologicamente come gioco educativo o “tradizione” ma in realtà è vero e proprio messaggio subliminale che rivendica la podestà umana sull’animale.


Questa specie di giocattoli e di mercato è in parte una cifra della crisi del ruolo del genitore nella nostra società, un genitore che svaluta e semplifica sempre più le sue funzioni educative lasciando che la società veicoli e controlli le inclinazioni e la personalità del bambino; un genitore acritico, superficiale, disattento (quante volte compra senza pensare?), per nulla lungimirante, suggestionabile, immaturo, tutto preso a far sì che il figlio “si faccia strada”, primeggi, eccella, si distingua dagli altri: questa logica combacia in fin dei conti con la logica degli allevamenti e dei circhi e fa del bambino uno status symbol quale l’automobile, la casa, le vacanze, o un mezzo di rivalsa su se stessi, sulle proprie frustrazioni e sugli altri in un rapportarsi sempre più competitivo.


Questi giocattoli entrano nell’ambiente del bambino, nel suo cassetto, nella sua cesta, nella sua stanza, e assumono subito, come d’altronde tutte le cose che abitano l’infanzia, un’indelebile funzione mitologico-pedagogica con un messaggio ben definito; un messaggio dittatoriale, che non ammette repliche, a-dialettico che impone una certa visione della realtà.

Attorno a questa materialità pedagogica si istituisce un’architettura del trovarsi gettato che prende corpo e si incarna nel bambino: è la trans-substantiatio ossia la conversione dell’ambiente nel corpo che segna sempre un ritardo, un’isteresi, come disse Sartre parlando di Madame Bovary di Flaubert, uno scarto biologico sull’emergenza del reale.(1)

Quand’ero bambino i nostri nonni ci parlavano del re Vittorio Emanuele III ch’era stato sul campanile del nostro paese, di Churchill e del suo sigaro, di Stalin, vedevamo film in bianco e nero sulla Seconda Guerra Mondiale, su Hitler e il nazismo: questa era la guerra che noi incorporavamo e i nostri soldatini erano tedeschi, inglesi, francesi, russi, giapponesi e italiani; nella nostra guerra non c’era la bomba atomica né il Vietnam e neppure il terrorismo, troppo attuali, ma neanche le foibe, i titini e i partigiani, troppo vicini, e l’Africa entrava nei nostri giochi solo grazie agli elefanti o rinoceronti in gomma e Tarzan. Una guerra di armi convenzionali, battaglia corpo a corpo, di trincea e non di rifugi antiatomici, “guerra di confine”, “invasione” territoriale tra confinanti: non conoscevamo il colonialismo e lo sfruttamento.

La guerra che l’ambiente m’aveva fatto metabolizzare e incarnare era quella che mio padre visse in prima persona, quando, a sua volta, giocava agli indiani e cow-boy o alle guerre Napoleoniche e prussiane: mio padre non giocò mai alla Guerra Mondiale.
Questo scarto temporale, questo “deposito” (come si dice di un vino) è l’anima (come quella dell’aceto) che nella trans-substantatio si incarna in noi e diviene ideologia.
Veri e propri strumenti ideologici, i nostri giochi infantili influenzano ora emotivamente e affettivamente la nostra capacità media di comprendere entro il concetto di guerra anche i conflitti “periferici” del terzo mondo o del sud-est asiatico e, non avendo metabolizzato l’imperialismo e il colonialismo, siamo ancora incapaci di inserire un episodio terroristico in un quadro bellico più vasto, in un quadro di sfruttamento, estorsione, ed estromissione.
E in questi giorni ne vediamo il risultato: la nostra generazione è cresciuta credendo e vedendo la guerra solo come una questione occidentale; esiste solo se colpisce l’Italia, l’Inghilterra, la Germania o la Francia; la guerra nelle altre zone non esiste (o per lo meno, questo è il nostro vissuto), rimane ai margini del nostro sguardo, del nostro interesse, della nostra preoccupazione.
Le istanze culturali del nostro ambiente si fissano in noi come sguardo e visione sul mondo, fornendoci uno scenario virtuale in cui ci muoviamo a nostro agio relegando queste realtà periferiche nell’intravisto, nello “sfocato”.


Così il cacciatore in quad, l’allevamento o il maneggio, passando per le mani del bambino, gli insegnano una volta per tutte cosa si deve fare dell’animale: e qual è il messaggio di questi giocattoli per il bambino? Semplicemente che l’animale va rinchiuso, munto, sellato, trasportato, esibito, educato, macellato proprio come i nostri giochi ci dicevano che l’indiano è cattivo, che va stanato, rincorso, ucciso o catturato e rinchiuso in una riserva.
Questi giocattoli trasfigurano e distorcono la natura dell’animale strappandolo al suo habitat e inserendolo nel processo produttivo ed economico umano: diventano strumenti dell’ideologia specista e antropocentrica; veicolano un interesse, sono in malafede tanto quanto la mucca di Heidi, poiché, anche se a differenza di questa mostrano al bambino la situazione più o meno reale in cui vivono le mucche, al contempo lo informano che è giusto così, e l’informazione diventa imperativo.

Ricordo le confezioni in cartone con foreste equatoriali o paesaggi canadesi: era più bella la scatola del giocattolo; tolta questa restava l’animaletto che noi facevamo muovere sulle piastrelle o sul pavimento in parquet e perdeva tutta la sua poesia. Ora le piastrelle sono entrate nella confezione dove asettici laboratori e nude e fredde stalle fanno da scenario a una fila di mucche.
Eravamo liberi di prendere l’elefante e farlo volare, con lui toccavamo le cose, esploravamo il mondo, lo facevamo seguire una traccia del tappetto o entrare in una macchia d’acqua, lo mettevamo all’ombra di un geranio in terrazza: oggi il gioco ha delle regole ben precise, e per definizione la mucca deve rimanere immobile e costretta alla mangiatoia imprigionata da due grate d’acciaio.

Il messaggio specista veicolato in questi giochi – l’animale va sequestrato, rinchiuso, sfruttato, torturato e ucciso a fini umani – oltre che riprodurre lo specismo, si inserisce in un programma ben preciso che ha come obiettivo l’allineamento emotivo del bambino con l’adulto e la società a cui appartiene. Il bambino deve essere allontanato per forza dal suo rapporto empatico-soggettivo-fantasioso con l’animale, rapporto di tenerezza e compresenza, e avvicinato almeno parzialmente alla funzione e posizione che questo ha nel mondo oggettivo degli adulti: essere una cosa.

Scrive Bruno Bettelheim:

“I bambini hanno una naturale affinità con gli animali e spesso si sentono più vicini a loro che agli adulti, nel loro desiderio di condividere la facile vita, di libertà istintuale e di godimento, dell’animale. Ma a questa affinità si accompagna anche un’ansia del bambino: quella di non essere forse perfettamente umano come dovrebbe essere.” (2)

L’allevamento o il maneggio e gli altri giocattoli simili, anticipando dei modi di attività caratteristici dell’età adulta (3) e imitando l’adulto e il suo mondo, creano situazioni-modello per il controllo della realtà, fungono da esperienza e da cauta pianificazione dell’avvicinamento alla realtà sociale e all’immagine che questa ha dell’animale.
Questi giocattoli facilitano il compito del genitore nel presentare la realtà traumatica dell’animale al figlio ancora “empatico”: spiegano in vece sua al figlio il triste destino dell’animale e gli mostrano cos’è un allevamento, allontanando definitivamente la possibilità di un incontro proto-etico e deresponsabilizzando il genitore.

Al bambino quindi è richiesto di metabolizzare la realtà produttiva che per eccellenza sfrutta e uccide l’animale, l’allevamento, in cui l’animale diviene ruota di un meccanismo, oggetto algebrico, astrazione, perimetro, processo, serialità: e in questo i genitori svolgono la loro funzione di conferma presentando l’animale nello zoo (serialità delle gabbie, delle specie e degli habitat), nel circo (serialità della performance), nella fattoria didattica (serialità dell’addomesticamento dove l’animale è presentato nella sua manipolabilità), nel negozio di animali e nel commercio di animali di razza (serialità dell’allevamento) e infine negli scaffali del supermercato (serialità dell’animale come carne confezionata).
Serialità che ben si accorda con la richiesta di ritualità del gioco come ricerca di punti di appoggio e di presa sul mondo dell’adulto semplificato in pochi gesti ripetitivi (pensiamo al fascino del fare il chierichetto in molti bambini che poi diviene una componente importante nella fede dell’adulto).
Il gioco come metabolizzatore inscrive quest’immagine dell’animale come oggetto seriale nella formazione dell’io tecnico-manipolatore.
Nel gioco c’è alla fine un incontro di questi due percorsi, tra il bambino e l’adulto, e un corrispondere e allinearsi reciproco sul piano emotivo: per questo, potremmo dire assieme a Erik H. Erikson che “il gioco è una funzione dell’io, un tentativo di sincronizzare i processi sociali e fisici alla propria individualità”:(4) così “nel piccolo docile mondo dei giocattoli”, che Erikson chiamava microsfera, il bambino costruisce il proprio io inserendovi anche l’animale in gabbia e l’allevamento.

Se il messaggio di partenza che i genitori, l’ambiente e la cultura danno al bambino è che l’allevamento è normale e necessario perché fa parte del mondo adulto, il giocattolo rafforza il messaggio divenendo vera e propria funzione sociale ossia una modalità di rapporto con l’altro, una struttura comunicativa dell’intersoggettività come allineamento, consenso, pensiero unidimensionale che metabolizza e rielabora socialmente lo sfruttamento animale e lo riproduce: il gioco diviene, insomma, quella zona di rifugio che squalifica ed esorcizza il male annientando definitivamente l’animale.
Il giocattolo non forma quindi solo il bambino ma la società stessa, costringe la realtà nelle sue forme: i giochi diventano modelli di realtà e, in questo caso, contribuiscono a far sì che l’adulto di domani non vedrà una mucca che in un contesto zootecnico.

I genitori hanno perciò una responsabilità non indifferente nello scegliere il giocattolo da acquistare e mettere nelle mani del loro bambino e già per troppo tempo hanno scelto fucili e pistole.
In una società, che si sta connotando infantilmente e che acquisisce sempre più bisogni e comportamenti di dipendenza neonatale, il giocattolo, assumendo l’immunità e l’innocenza infantile, diviene potente strumento di discredito (dire ad un uomo che sta giocando) e di de-responsabilizzazione (sta solo scherzando, lo fa per gioco).
Il bambino giocando ad allevare, ad ammaestrare, a cacciare, catturare, a esporre ed esibire l’animale impara a de-responsabilizzare se stesso e gli altri davanti a queste pratiche persecutive.
Anche l’animale in carne ed ossa come giocattolo rientra in questo quadro di de-responsabilizzazione che porta alla sua completa reificazione e ai modi di rapportarsi connessi a questa (acquisto, maltrattamento, abbandono, distruzione).

(1) JEAN-PAUL SARTRE, Critica della ragion dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963, trad. it. Paolo Caruso, p. 58

(2) BRUNO BETTELHEIM, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli. Milano 1982, trad. it. Andrea D’Anna, p. 279

(3) PHYILLIS GREENACRE, Studi psicoanalitici sullo sviluppo emozionale, G. Martinelli Editore, Firenze 1979, trad. it. Alberto Ponsi, p. 376

(4) ERIK. H. ERIKSON, Infanzia e società, Armando Armando Editore, Roma 1966, trad. it. Luigi Antonello Armando, p. 197

Campagna di sensibilizzazione contro i botti di fine anno


Ogni anno a capodanno assistiamo impotenti al consueto bollettino di guerra con centinaia di feriti, alcuni dei quali dovranno subire amputazioni di mani e dita e perdita della vista, e con le forze dell’ordine come sempre impegnate nel sequestro di botti illegali.
Ma sono ancora una volta gli animali a dover pagare il prezzo più alto di una tradizione che sarebbe doveroso vietare una volta per tutte.
L’uomo dispone di un udito con una percezione compresa tra le frequenze denominate infrasuoni, intorno ai 15 hertz, e quelle denominate ultrasuoni, sopra i 15.000 hertz.
Cani e gatti, invece, dimostrano facoltà uditive di gran lunga superiori: il cane fino a circa 60.000 hertz mentre il gatto fino a 70.000 hertz.
Agli animali oltretutto non è dato comprendere cosa stia accadendo e la paura, o per meglio dire il terrore, può avere risvolti drammatici.
Le tragiche conseguenze dei botti di capodanno non coinvolgono solo gli animali domestici bensì tutti gli animali, compresi quelli selvatici.
La loro agonia e morte a causa di questa assurda consuetudine non possono e non devono lasciarci indifferenti.

Pordenone è un Comune dotato-da anni- di una norma che vieta l’uso di botti, petardi, mortaretti e simili nelle aree pubbliche.
Dal "Regolamento Comunale di Igiene" del Comune di Pordenone,
articolo 38-comma 9:
"Sparo di petardi, mortaretti, e simili in luogo pubblico o aperto al pubblico:
è vietato lungo le strade, piazze e aree pubbliche e aperte al pubblico, il lancio o lo scoppio di petardi, mortaretti o simili, in particolare nel periodo delle festività natalizie, di capodanno, Epifania e carnevale"

Nonostante ciò la sensazione è che, ad oggi, gran parte della cittadinanza non sia pienamente al corrente di questo divieto, e che ad esso non sia data la dovuta visibilità.
Animalisti FVG si è, in questi anni, appellata al Sindaco di Pordenone Dott. Claudio Pedrotti, chiedendo all'Amministrazione di avviare una campagna di sensibilizzazione e di informazione circa il divieto in oggetto,
diretta alla cittadinanza e realizzata attraverso una serie di pubbliche affissioni su plance comunali, ritenendo queste ultime un prezioso strumento per la promozione di un messaggio di civiltà
contro l'utilizzo di botti e petardi in città.
Per il Comune, oltretutto, questa campagna non avrebbe comportato costi aggiuntivi se non quelli comunemente sostenuti per la promozione delle varie iniziative in corso durante l'anno.

L'appello è tuttavia rimasto inascoltato e l'associazione, nel prendere atto del silenzio del primo cittadino di Pordenone, si è fatta anche quest'anno promotrice
della campagna di sensibilizzazione “NO AI BOTTI”, attraverso la distribuzione -per tutto il mese di dicembre- di locandine e centinaia di volantini a Pordenone e provincia.



Non riusciamo a comprendere le ragioni 
che spingono un’Amministrazione Comunale dotata di norme in materia di sicurezza, igiene e tutela animali, a lasciare che le stesse siano così palesemente disattese, mancando di informare e sensibilizzare in maniera adeguata ed efficace i suoi cittadini.


lunedì 30 novembre 2015

Sabato 28 novembre: sit-in per le vittime dell'industria della pelliccia


Sabato 28 novembre, dalle 17:00 alle 19:00 Animalisti FVG era presente in centro a Pordenone per rappresentare «tutte le vittime cadute per mano della moda».
Un'azione di denuncia con l'obiettivo di informare il pubblico e di mostrare i volti delle vittime dell'industria della pelliccia.

Un capo in pelliccia può essere economico, nel caso si tratti di inserti in pelo, oppure molto costoso nel caso sia interamente costituito di pelliccia.
Chi paga un prezzo non quantificabile sono gli animali.

Siano essi cresciuti nelle piccole gabbie di un allevamento o catturati con le tagliole, per l’industria della pelliccia gli animali sono solo oggetti da cui strappare via il manto e la pelle una volta uccisi.
Con lo stratagemma degli inserti, il settore pellicceria è riuscito a rimettere in gioco la pelliccia animale, facendola sembrare un capo molto più "innocente".
Ma non è così: le pellicce con cui vengono ornate giacche, cappotti, borsette, stivali ed altri capi d'abbigliamento o accessori vengono dalla morte di milioni di animali.

Ogni anno vengono infatti uccisi più di 60 milioni tra visoni, volpi, ermellini, conigli, procioni, cani, gatti, foche: animali costretti per tutta lo loro vita nelle gabbie di un allevamento o catturati con metodi cruenti nei loro ambienti naturali.




Chiusi in piccole gabbie, costretti a muoversi su superfici innaturali che spesso portano al ferimento delle zampe (reti metalliche), isolati dai loro simili, alimentati in maniera innaturale.
La loro vita è molto breve (il tempo necessario perché la loro pelliccia sia utilizzabile) e le condizioni di allevamento si ripercuotono sui comportamenti che gli animali presentano: ripetizione ossessiva dello stesso movimento, aumento dell'aggressività, paura, stato di profonda apatia, comportamenti isterici o autolesionisti come spezzarsi i denti mordendo la gabbia.
Una tecnica di allevamento particolarmente crudele è quella di esporre, in inverno, gli animali al freddo per far sì che sviluppino una pelliccia più folta.
L'uccisione può avvenire sia con il gas che con l'elettricità, non essendo gli animali tutelati da alcuna legge a riguardo. Nel caso di soffocamento da gas, gli animali vengono chiusi in gabbie di legno collegate allo scarico di una macchina agricola (in genere). Nel caso di morte con elettricità due elettrodi vengono inseriti nella bocca e nell'ano e vengono trattenuti con delle pinze mentre la scarica elettrica li uccide.




Purtroppo sono tanti (10-20 milioni di mammiferi) anche gli animali uccisi in libertà per farne delle pellicce. Nei boschi si usano le tagliole. Gli animali vittime di queste trappole rimangono anche per una settimana ad aspettare il cacciatore che verrà ad ucciderli. Nel frattempo la ferita si gonfia provocando dolori indescrivibili. Cosa ancora più assurda è il fatto che spesso gli animali vittime delle tagliole sono animali non utilizzabili per le pellicce, quindi è una caccia spietata che non risparmia nessun mammifero abitante del bosco. Famosi sono inoltre i cacciatori di piccoli di foche che uccidono i piccoli a bastonate in testa e li scuoiano davanti alle loro madri impotenti, a cui lasciano il cadavere sanguinante e scuoiato del piccolo.

Gli animali allevati solitamente sono visoni, ermellini, cincillà, conigli, procioni (orsetto lavatore) e altri piccoli animali. Ma la lista include anche cani e gatti, quando si parla di pellicce importate per esempio dalla Cina.
Quando si è di fronte ad un indumento bordato di pelo, la prima cosa che si deve fare è controllare l’etichetta. Se la dicitura indica “Real Fur”, “Fox Fur”, “Lapin”, “Murmaski Fur” è pelliccia vera (volpe, cane, coniglio, procione, etc.).
La soluzione resta solo una: non acquistare pellicce di animale, ottenute sempre- per desiderio di profitto- con sofferenze immaginabili di questi esseri senzienti.


mercoledì 25 novembre 2015

Il menù delle feste per un Natale 2015 veramente BUONO!

Eccoci anche quest'anno con un appetitoso menù per le feste, curato da Alessandra Caprari per i lettori del nostro blog.
Buon appetito e buone feste da Animalisti FVG!

ANTIPASTO - flan di zucca e cavolo nero


flan di zucca e cavolo

Ingredienti (per 4 persone):
300 grammi di zucca

100 grammi di cavolo nero
4 cucchiai di amido di mais
4 cucchiai di latte di soia
300 ml di besciamella vegetale
20 grammi di parmigiano vegano
sale, pepe, olio e.v.o.
20 grammi di pane grattugiato


Procedimento:
Tagliare a cubetti la zucca e cuocerla in padella con po' d'olio e.v.o.
in un tegame a parte soffriggere l'aglio e aggiungere il cavolo nero sino a quando sarà stufato (eventualmente aggiungere dell'acqua). Aggiustare di sale.
Passare al mixer la zucca e il cavolo nero;
in una ciotola amalgamare l'amido con il latte di soia, aggiungere la besciamella precedentemente preparata, il pane grattugiato, il parmigiano vegano, sale e pepe q.b. ; unire il tutto al composto precedentemente preparato.

Ungere e oliare 4 stampini da forno (meglio se di stagnola), riempirli con il preparato e infornare a 180 gradi per circa 30 minuti
A fine cottura sformare i flan e guarnirli a piacimento.


PRIMO - Orzotto natalizio

Orzo invernale

Ingredienti (per 4 persone):
280 grammi di orzo perlato
2 pere williams mature

mezza cipolla media
1/2 bustine di zafferano, a seconda dei gusti
1/2 litro di brodo vegetale
olio e.v.o.
1/2 bicchiere di vino bianco
30 grammi di parmigiano vegano
sale, pepe
pistilli di zafferano (per la guarnizione)


Procedimento:
Tritare finemente la cipolla e farla imbiondire nell'olio
tostare l'orzo e sfumarlo con mezzo bicchiere di vino bianco
aggiungere il brodo vegetale fino a metà cottura e nel frattempo sbucciare e tagliare a tocchetti le pere

aggiungerle all'orzo e terminare la cottura unendo lo zafferano in polvere
mantecare con il parmigiano vegano e guarnire con i pistilli di zafferano

SECONDO - Tasca di seitan ripiena alle castagne


Tasca di seitan ripiena alle castagne

Ingredienti (per 4 persone):
1 panetto di seitan (possibilmente fatto in casa) di circa 500 grammi seitan
3 etti di castagne
salvia, rosmarino e alloro
300 ml di brodo vegetale

1/2 bicchiere di vino bianco secco
200 ml di panna di soia
sale e pepe q.b.
olio e.v.o.


Procedimento:
lessare le castagne con sale e alloro
sbucciarle e tenerle da parte
scavare l'arrosto di seitan in maniera da creare una tasca al suo interno
spezzettare le castagne, farle soffriggere con olio, sale e pepe
aggiungere l'alloro spezzettato o tritato, riempire la tasca di seitan con questo composto
preparare un trito di salvia e rosmarino, aggiungerlo all'olio in una casseruola e unirvi il seitan, rosolandolo con vino bianco aggiungendo sale e pepe

sfumare il tutto con il vino bianco
unire il brodo vegetale e cuocere per circa 15/20 minuti senza coperchio
aggiungere la panna di soia in maniera tale che la riduzione risulti cremosa
tagliare a fette e servire caldo



CONTORNO - cruditè di finocchio invernale

cruditè di finocchio invernale

Ingredienti (per 4 persone):
2 finocchi medi
1 grossa mela
30 grammi di nocciole
1 pezzetto di zenzero fresco
scaglie di parmigiano vegano
olio e.v.o.
aceto balsamico
sale e pepe
maionese di soia (o di riso)



Procedimento:
tagliare a cubetti il finocchio e a listarelle la mela
grattugiare lo zenzero
unire le nocciole tagliate a metà e le scaglie di parmigiano vegano
condire con un'emulsione di olio e.v.o. aceto balsamico, sale, pepe e maionese


DOLCE - Budino al cacao e noci con salsa di pere

Budino al cacao e noci con salsa di pere

Ingredienti (per 4 persone):
60 grammi di gherigli di noci spezzettati

50 grammi di farina di riso
50 grammi di cacao amaro
80 grammi di zucchero di canna

1 cucchiaino da the di agar agar
1 cucchiaino da caffè di vaniglia in polvere
500 ml di latte vegetale (metà riso e metà soia)


Procedimento:
in una ciotola mescolare la farina di riso, lo zucchero, il cacao in polvere e l'agar agar
in un pentolino far sobbollire il latte con la vaniglia, unirlo al composto precedente e frullare il tutto
far cuocere il composto per 5 minuti mescolando energicamente affinché non si formino grumi
distribuire i gherigli di noce in 4 stampini
riempirli con la crema al cacao, lasciarli raffreddare e riporli in frigorifero per almeno 3 ore
tagliare a pezzetti le pere, unire lo zucchero e cuocerle finché non saranno morbide
passarle al mixer in modo da ottenere una salsa, eventualmente aggiungendo un po' di acqua fredda per renderla più liquida
impiattare capovolgendo gli stampini con la crema al cioccolato, guarnendo con la salsa di pere a piacimento.



martedì 24 novembre 2015

Il "maiale da riciclo" messo all'asta: uno strano concetto di solidarietà


Non c'è dubbio, viviamo un tempo di crisi, non solo economica.
Parvenze di comunità, parvenze di solidarietà, sensibilità e attenzione. Quando ciò che conta è esibire la solidarietà, non essere-solidali, raccontarsi comunità senza esserlo nel quotidiano, mostrarsi persone attente agli sprechi, senza impegnarsi personalmente, quando non si ha più nulla da dire e condividere, non resta che appellarsi alle tradizioni violente. Delle tradizioni si prende il peggio.

Ed è così che una "comunità" (?) sceglie di celebrare la propria decadenza banchettando sulle spoglie di una povera vittima sacrificale, non compianta: il maiale, quel maiale.
"Tradizioni che si erano perse" ripristinate con l'augurio che possano diventare "prassi consolidate".
Consolidata di certo è la prassi di allevare figli - utili a un sistema fondato sullo sfruttamento - incapaci di distinguere un individuo da una macchina da riciclo.

Venerdì 27 novembre la comunità si riunirà vicino alla grande quercia, simbolo di vita, per celebrare la morte.
Niente lacrime per il maiale sacrificato - o, per essere precisi- per ciò che resta di lui, pezzi di carne. Solo grasse risate con il duo comico I Papu.


COMUNICATO STAMPA LAV e AFVG
L’asta di pezzi del corpo del maiale, che è stato per sei mesi allevato “amorevolmente” da scolari con i resti del cibo avanzato della mensa scolastica, è l’ultima tragica e macabra trovata sulla pelle di un povero maiale e di innocenti bambini.

L'iniziativa, avallata dai docenti locali, dall’Amministrazione Comunale e dal Sindaco di Prata di Pordenone in testa, è quanto di peggio possa venire da chi dovrebbe essere la migliore espressione cultural-amministrativa di una comunità.

Iniziativa tragica per ambedue i soggetti di riferimento della stessa: l’animale maiale, considerato non come essere vivente dotato di sensibilità bensì come pattumiera riciclante di resti di alimenti classificati rifiuti umidi; I bambini scolari, al culmine della loro educazione e formazione di futuri adulti, ai quali è stato presentato un essere vivente- il maiale appunto- nella classica visione antropocentrica, con il sicuro plauso anche del pievano di turno, della categoria allevatori zootecnici, della categoria macellai e della categoria cacciatori.

La comunità civile, sensibile al diritto all'esistenza ed al rispetto di tutti gli esseri viventi, ritiene inaccettabili simili riti dal macabro sapore medievale, portatori di sottocultura e violenza nei confronti del "diverso".


LAV di Pordenone e AFVG saranno presenti alla triste iniziativa di quest’asta di sangue.

lunedì 16 novembre 2015

Una Repubblica oligarchica fondata sulla caccia - di Tamara Sandrin e Rodrigo Codermatz


Il bilancio delle stagioni di caccia si rivela ogni anno un vero e proprio bollettino di guerra: decine e decine di morti umane, centinaia di feriti, centinaia di migliaia di morti animali, dimenticate, cancellate.
Sono queste le vere vittime della caccia, che non balzano mai, come si dice, “agli onori delle cronache”, come sta succedendo in questo periodo ad altre vittime come Adamas o l'operaio Gianfranco Barsi di Lucca.

Ci chiediamo se i colpevoli siano soltanto i cacciatori, i singoli, o se queste morti possano essere imputate anche a qualcun altro.
E la risposta più che ovvia non può essere altro che questa: il cacciatore con la sua tracotante sicurezza, con la sua aggressiva arroganza, con la sua crudele volontà di uccidere, è ben sicuro della sua impunità perché sa, come dovremmo sapere anche noi, di essere solo la punta dell'iceberg di un sistema basato sul dominio del forte sul debole, su un'oligarchia che fa della limitazione della libertà il suo principio costituente, lasciando la maggioranza inerme in balia di una minoranza armata, sulla connivenza e omertà istituzionalizzate.

Ci chiediamo quindi se gli italiani siano veramente contro la caccia. I cacciatori sono una minoranza, con un trend in calo continuo (le stime parlano di un numero di circa 700 mila cacciatori), la maggior parte degli italiani sembrerebbe essere contraria alla caccia. (1)
Ma se è veramente così perché i cacciatori possono continuare indisturbati nella loro opera di sterminio, perché noi dobbiamo rimanere prigionieri di un regime terrorista?
Non sarà forse perché gli stessi che si dichiarano contro la caccia poi vanno la domenica negli agriturismi a ordinare cervo, fagiano o pappardelle con ragù di cinghiale, senza interrogarsi sulla provenienza di quel che hanno ordinato, senza rendersi conto che sono loro stessi i mandanti di quelle stragi? E neppure gli organi preposti ai controlli sembrano chiedersi da dove arriva quella cacciagione.
Certamente le centinaia di migliaia di animali cacciati non possono essere tutte destinate al consumo personale dei cacciatori! Quindi è legittimo pensare che parte delle loro prede sia venduto ad amici, parenti e attività come ristoranti e agriturismi.
A questo punto si affollano alla nostra mente (e probabilmente solo alla nostra, non a quella dei consumatori e dei controllori) una serie di domande: vengono effettuati controlli fiscali su cacciatori e ristoratori? In un regime di paura, che impedisce ad un genitore di portare all'asilo una torta preparata in casa per il compleanno del figlioletto, perché potrebbe essere pericolosa, la carne di animali selvatici (quindi non vaccinati né visitati da un veterinario) è igienicamente sicura? Viene controllata? E le macellazioni come si svolgono? Non ci sono forse delle leggi che regolano le macellazioni casalinghe?
Tutte queste questioni, seppure importanti, non sono fondamentali nella lotta antispecista alla caccia, ma potrebbero costituire un'ulteriore arma per smuovere le istituzioni, a prendere una posizione chiara e chiarificatrice in merito.
Un altro motivo, per cui i cacciatori possono continuare a seminare paura e morte, è la connivenza degli agricoltori che, attraverso le associazioni di categoria2, sono i primi a rivolgersi ai cacciatori per risolvere i loro “problemi”: non c'è momento in cui non si senta parlare di ingenti danni all'agricoltura perpetrati da nutrie, ungulati, corvidi, etc. E chi è il salvatore, il supereroe, che può ristabilire il “giusto” equilibrio (di fatto un dis-equilibrio tutto sbilanciato verso l'uomo) se non il cacciatore con la sua doppietta?
E' inutile lamentarsi che i cacciatori possono accedere e spadroneggiare nei fondi privati, quando sono gli stessi proprietari (o almeno la gran parte di essi) a invitarli e proteggerli quali paladini della loro attività.
Infine c'è ancora un fattore che conferisce tanta libertà ai cacciatori, è il più subdolo, il più diffuso: la paura. E quando la paura porta all'apatia, alla mancanza di ribellione, all'inattività, è connivenza.
Anche noi abbiamo paura, noi, antispecisti, che viviamo circondati da riserve di caccia private, che viviamo con cani e gatti e temiamo per la loro vita e che, per questo, non osiamo protestare direttamente contro i cacciatori, boicottarli e disturbarli. Perciò è arrivato il momento di stringerci e fare fronte comune: ma le veglie e le fiaccolate pacifiche e silenziose non bastano più. Abbiamo voglia di urlare perché agli animali non è concesso il tempo di farlo. Bisogna sabotare l'ideologia e l'esistenza di questi criminali.
Dobbiamo inoltre approfittare delle tristi cronache di questi giorni, per enfatizzare e portare a saturazione, per incrinare la tolleranza e la sopportazione non solo degli antispecisti, ma anche della “gente comune”, perché i cacciatori non possano più rifugiarsi tra le gonne dello stato e della vigente giurisdizione. Dobbiamo far assurgere le nostre convinzioni antispeciste e le nostre convinzioni altamente morali, civili ed etiche allo status di richiesta di asilo politico in un paese “democratico”, con la coscienza che le nostre istanze vanno contro gli interessi (anche economici) e la follia istituzionalizzata, che si sta erigendo a vera e propria polizia politica con il benestare dello stato stesso.
Per tutti questi motivi i processi per l'assassinio di Adamas e per il tentato omicidio dell'operaio di Lucca costituiscono un'occasione e una responsabilità per i giudici che presiederanno i rispettivi processi: non solo dovranno giudicare questi due assassinii, ma dovranno anche decidere la sorte di tutti noi, dovranno decidere se le campagne, i boschi, le zone paludose e rurali, continueranno a essere il nostro far-west frequentato da gente armata, pericolosa e intoccabile.
Purtroppo i processi si svolgeranno quando la rabbia e l'indignazione saranno affievolite, molti avranno già dimenticato Adamas, la stagione di caccia sarà ormai chiusa, tutte le altre vittime ”selvatiche” saranno passate inosservate, o, peggio, macabramente digerite.
Ma ogni sentenza crea un precedente e apre un nuovo scenario su cui si muovono gli attori delle vicende.
Sicuramente Adamas non è la vittima di Lucca e il verdetto non sarà lo stesso. Per arrivare allo stesso verdetto ci vorrebbero delle leggi nuove; al cambiamento, alla rivoluzione (se mai potrà avvenire) si può arrivare solo con il concorrere di diversi disequilibri strutturali: pensiamo ad un paesaggio epigenetico dove una pallina, muovendosi, crea dei punti di instabilità, delle biforcazioni, dei creodi, delle valli, dei punti di sella. E' necessario il concorrere di eventi disarmonici, che facciano precipitare gli eventi, che conducano a dei punti catastrofici che, modificando la situazione reale e attuale, sintetizzino, incanalandole, tutte quelle forze cieche e isolate, che trovano la loro coesione solo a posteriori, riprese da un ultimo punto di equilibrio.
Purtroppo, come abbiamo visto nel caso degli attivisti di Green Hill processati alcuni giorni fa, allo stato attuale non possiamo aspettarci niente dalle istituzioni. La sentenza di condanna dei liberatori a prima vista può sembrare strana, ma in realtà, tutelando la proprietà privata, tranquillizza il cittadino: l'assoluzione, invece, sarebbe stata destabilizzante in quanto avrebbe assicurato una certa impunità a chi volesse ergersi come paladino della giustizia animale.
Anche la sentenza di condanna dei proprietari di Green Hill e la conseguente chiusura dell'allevamento rientrano nel sistema: la mobilitazione di massa ha portato all'accoglienza di istanze popolari non prettamente antispeciste e antivivisezioniste. Purtroppo il salvataggio dei beagles di Green Hill non ha condotto ad una discussione sulla necessità e soprattutto sulla leicità della vivisezione tout court, ma ha portato ad una sostituzione delle vittime, in un perpetrare dello specismo ideologico su cui sui basa la nostra società.
E questo temiamo accadrà anche per il processo di Adamas, viste anche le premesse dell'imputazione: se non fosse così tragico, ci porterebbe quasi a sorridere amaramente. L'assassino di Adamas è stato accusato di “uccisione di animale”, il che significa che verrà processato per ciò che è, costituzionalmente e per definizione, il cacciatore: un uccisore di animali.

Tamara Sandrin e Rodrigo Codermatz

giovedì 5 novembre 2015

ANTISPECISMO (E) QUEER - sabato 7 novembre a Pordenone


Che cosa c’entrano gli animali e la teoria queer?
L’antispecismo e i movimenti LGBT?

Se ne parlerà a Pordenone sabato 7 novembre, in occasione dell’incontro organizzato dall’associazione Animalisti Friuli Venezia Giulia presso la Biblioteca civica, incontro durante il quale verranno presentati due libri sul tema con la presenza dei curatori, Massimo Filippi e Marco Reggio.
Il primo dei due testi, "Manifesto Queer Vegan" di Rasmus Simonsen, intreccia i temi del pensiero gay e queer con la questione del veganismo, di chi rifiuta di mangiare animali e contesta così la violenza sui soggetti non umani. Il saggio di Simonsen si chiede che senso abbia il veganismo, oggi, come pratica destabilizzante, che legami abbia con l’omosessualità e con la critica dell’eterosessualità obbligatoria, e quali siano le prospettive di un’alleanza
fra soggetti queer e vegan.

Di recente uscita è invece la raccolta di saggi “Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali”, che contiene un’intervista alla “filosofa del gender” e una postfazione di Federico Zappino.
E’ possibile – si chiedono i curatori – utilizzare gli strumenti butleriani per rendere più efficaci le armi concettuali della lotta allo sfruttamento animale?
E’ possibile, per esempio, rivendicare il lutto per gli animali come forma di presa di posizione politica antispecista?
Le vite precarie cui fa riferimento la filosofa parlando, per esempio, della condizione dei palestinesi sotto attacco permanente, sono solo umane?

E l’“Uomo”? È un dato di fatto o il frutto avvelenato di una ben precisa costruzione storica? Quali consuetudini lo hanno eretto? Qual è il fondale osceno da cui è emerso e che non smette di nascondere?
Da quali e quante morti ha preso vita? Chi ha colonizzato, incorporato, espropriato e appropriato? Chi è stato e continua a essere mangiato?

Questo libro utilizza alcuni degli strumenti filosofici di Judith Butler – vulnerabilità, lutto, vite precarie –, per esplorare insieme a lei, ma senza timori reverenziali, i processi di umanizzazione e di animalizzazione, per portare alla luce «un altro potere ancora che non ha bisogno di dirsi»: il potere che si occulta dietro la barra della dicotomia umano/animale, dicotomia gerarchizzante e violenta come tutte le altre, ma tuttora profondamente ignorata
in quanto considerata “naturale” e, come tale, immune al pensiero critico e ai processi politici trasformativi.

Che cosa accadrebbe se venisse intesa in tutta la sua portata l'affermazione secondo cui “chiedere la fine della crudeltà significa chiedere la distruzione delle istituzioni della crudeltà"?

Appuntamento Sabato 07 novembre 2015 - ore 17.30
 Sala Conferenze “Teresina Degan”
 Biblioteca Civica di Pordenone
   Piazza XX Settembre - 33170 Pordenone

Ingresso libero

Nuovi libri in arrivo alla Sezione Diritti Animali della Biblioteca di Pordenone


Da oggi la Sezione Diritti Animali della Biblioteca Circoscrizionale di Torre (Pordenone), curata da Animalisti FVG, si arricchisce di 16 nuovi volumi disponibili anche per il prestito interbibliotecario (in tutta Italia) e reperibili attraverso il database OPAC SBN, a questo link

Ecco la lista dei nuovi arrivi:

Noi Animali, We Animals - Jo-Anne McArthur
Comprendere il cavallo - Francesco de Giorgio
Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali -a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio
Così perfetti e utili. Genealogia dello sfruttamento animale - Benedetta Piazzesi
Crimini sessuali contro gli animali - Ciro Troiano
Ho ucciso un pò di lucertole: preadolescenti e animali in un'indagine svolta nelle scuole medie - Ciro Troiano
L'aspirante guardia zoofila - Ciro Troiano
L'isola delle bestie - Marco Verdone
La vigilanza zoofila: l'attività di polizia giudiziaria in difesa degli altri animali - Ciro Troiano
Il maltrattamento organizzato di animali - Ciro Troiano
Rapporto Zoomafia 2013: sistemi criminali & animali - Ciro Troiano
Rapporto Zoomafia 2014: illegalità, malaffare e crimini contro gli animali - Ciro Troiano
Scelta vegetariana e vita in bicicletta - Michela De Petris e Mauro Destino
Buono sano vegano - Michela De Petris
Liberazioni, rivista di critica antispecista -n.21
Liberazioni, rivista di critica antispecista -n.22

Le rivendicazioni del movimento per i Diritti Animali spesso non vengono pienamente comprese dall'opinione pubblica,  ma è importante sottolineare che alla base di questo movimento ci sono illustri portavoce: filosofi, uomini di scienza, medici, personalità di fama internazionale, che hanno argomentato in modo ineccepibile queste tesi.

Quanti conoscono questi testi? Ancora pochi, a nostro avviso, ed è fuori dubbio che per qualsiasi rivoluzione culturale i libri rappresentano un potente e indispensabile strumento di comunicazione, un filo conduttore che traccia un percorso che, per quanto riguarda nello specifico i diritti degli animali, è ancora in divenire.
Ad oggi la sezione Diritti Animali di Pordenone annovera più di 200 volumi, libri che in molti casi hanno contribuito a cambiare per sempre modo di vedere le cose a quanti hanno avuto l'opportunità di leggerli.

Grazie al prestito interbibliotecario un testo può essere fatto arrivare all'utente da qualsiasi biblioteca d'Italia.
Lista completa dei testi presenti nella sezione
Per informazioni su come replicare l'iniziativa "Diritti Animali in Biblioteca" nella vostra città 
o se desiderate contribuire con una donazione di testi scrivete a animalistifvg@gmail.com
oppure visitateci su su Facebook, a questa pagina 

PORDENONE-BIBLIOTECA CIRCOSCRIZIONALE DI TORRE 
Via Vittorio Veneto 21 – 33170 Pordenone (presso Bastia del Castello di Torre) 
Telefono 0434/44038 
Orario: martedì, giovedì e sabato dalle 15,00 alle 18,00 

La tessera per il prestito è gratuita e può essere richiesta direttamente presso la sede della Biblioteca Circoscrizionale

martedì 27 ottobre 2015

Il Trust della Carne

A poche ore dalla pubblicazione del Rapporto Iarc (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul cancro) le cui conclusioni mettono nero su bianco quanto una esigua e visionaria parte della classe medica sosteneva già da anni, assistiamo-attraverso i media nazionali e perfino locali- a una prevedibile e strafottente alzata di scudi da parte di "eminenti" oncologi, nutrizionisti e portavoce di associazioni di categoria.
Uniti e compatti contro ogni forma di allarmismo, dicono.
In rete la notizia fa il giro delle testate giornalistiche e dei blog di ogni tipo, assumendo sfumature grottesche.
La Stampa riporta di come a Torino siano già diminuiti "i consumi di carne rossa". Il sottotitolo è : "Assomacellai: «Sbagliato generalizzare». Pronta una campagna di informazione".
Confesercenti rilancia: vendite già in calo del 20% (fonte: Il Sole 24 ore)
In Abruzzo ci si chiede : "dobbiamo preoccuparci anche degli arrosticini?"  Niente paura, perché "se parliamo di grigliate non è la carne che fa male - afferma Filippo Rubei direttore della sezione aquilana della Confederazione italiana degli agricoltori (CIA) - ma il grasso che scola sulla brace calda e che produce benzene. Insomma bisogna fare attenzione al tipo di cottura quando si usa la brace. "
Unicarve, Associazione Produttori Carni Bovine del Triveneto parla di "Vera Follia. Noi siamo garantiti dal marchio di qualità verificata".


Con grande e lucida obiettività arrivano ad aggiungere che "ci sono importanti interessi che cercano di favorire altri alimenti".
Sarà senz'altro la temuta lobby della quinoa, o forse qualche multinazionale dei legumi.

Scende in campo la romantica figura del "macellaio-poeta" che con un "no agli allarmismi, viva la ciccia" rinfranca il nostro animo di consumatori smarriti.




È tutto sotto controllo dunque.
Anzi: tutto DEVE essere sotto controllo.
La catena di smontaggio non può fermarsi, neanche di fronte all'Organizzazione mondiale della Sanità.


La frase di Upton Sinclair (1878-1968) è ancora una volta- e più che mai- attuale : "Quello che gli industriali volevano da un maiale era tutto il profitto che riuscivano a spremere; ed era esattamente quel che volevano dall'operaio, come pure dal consumatore. Quel che pensava il maiale, quando soffriva, tutto ciò non veniva preso in considerazione, e lo stesso valeva per gli operai o per chi acquistava in seguito la carne.
Il Trust della Carne era l'incarnazione dell'Avidità cieca e insensibile, il Mostro insaziabile dalle mille fauci, il Grande Macellaio, il simbolo dello spirito stesso del capitalismo".
Essa ben riassume e contestualizza ciò che sta avvenendo ed è già- di per sé- un commento eloquente.
Quanto a queste prime violente reazioni alle dichiarazioni dell'OMS, riteniamo meritino di essere prese in considerazione e non sottovalutate; non è nostro compito né interesse occuparci degli aspetti salutistici della questione, ma riteniamo doveroso porre l'attenzione su quanto sta accadendo per denunciare la connivenza - che c'è sempre stata, ma che ora appare in modo più che mai eclatante - delle istituzioni, del Ministero della Salute e degli organi di informazione, asserviti a questo sistema di smembramento dei corpi, delle vite.