domenica 3 giugno 2018

Il circo dentro e fuori dal tendone



La critica all’industria del circo con animali sembra essere arrivata a uno stallo che merita di essere preso in considerazione. Apparentemente, una possibile soluzione abolizionistica è a un passo, vista la legge del Novembre 2017(Legge del Codice dello Spettacolo n. 4652), che prevede il “graduale superamento della presenza degli animali nei circhi e nelle attività dello spettacolo viaggiante”. Eppure questa legge lascia spazio a troppe deroghe e troppe interpretazioni: cosa vuol dire graduale? Cosa vuol dire superamento?
Oltre alle interpretazioni questa legge lascia tempo sufficiente affinché i circhi studino e adottino strategie per cambiare senza cambiare. Ovvero, per adeguarsi ai tempi e alle esigenze del mercato, riuscendo a rendere socialmente sempre più accettabile la presenza degli animali negli spettacoli, in modo che la gradualità di questo cambiamento diventi potenzialmente infinita.
O si assista addirittura ad un’evoluzione numerica e qualitativa del fenomeno.

Anche se è vero che, da quando l’industria circense vede concretamente la propria fonte di guadagno in pericolo, sta mostrando reazioni sempre più scomposte e violente, non possiamo non notare che il circo si sta realmente evolvendo. Ne è dimostrazione il fatto che le critiche che gli vengono poste vadano spesso a vuoto. Troppi slogan hanno finito per generare altrettanti slogan di risposta, riportati nei comunicati stampa, diffusi attraverso i social media, quando non addirittura citati automaticamente dalla stampa e inseriti a fine articolo in modo che, in nome di una vaga completezza dell’informazione, nulla venga veramente messo in discussione.
E questi stessi leitmotiv giustificativi vengono poi acquisiti da chi continua a finanziare i circhi pagando il biglietto d’ingresso.
Le domande che per anni l’animalismo antispecista ha lanciato agli spettatori durante i presidii o attraverso i comunicati stampa hanno perso di forza perché sono diventati uno specchio di quel meccanismo stimolo/reazione tanto caro a chi addestra gli animali.
Ad esempio:

– I circhi maltrattano gli animali! Non è vero, anzi li amano.
– Gli animali soffrono in cattività! Ma fuori morirebbero, e poi sono nati in cattività.
– Dobbiamo aprire le gabbie! Ma voi avete pur i cani a guinzaglio!

Chi ha avuto modo di partecipare a discussioni di questo tipo, anche in altri ambiti di protesta, sa quanto sia impossibile, in questi scambi di battute, arrivare a informare sulla questione sostanziale della sofferenza animale e alla deprivazione delle soggettività coinvolte negli spettacoli itineranti.
Per quanto gli slogan siano formalmente corretti e abbiano un certo impatto immediato, è necessario prendere in considerazione strade alternative, abbandonando gli slogan e facilitando, invece, l’insorgere di domande che portino a una riflessione più profonda e alla nascita di altre domande altrettanto importanti.
Per mettere in discussione un circo che sta correndo preventivamente ai ripari, per riaprire un dialogo con la cittadinanza che in realtà è diventato un monologo, è necessario riprendere in primo luogo a porci in prima persona nuove domande in modo da poter proporre nuovi punti di vista più spiazzanti.

Mi ha molto colpito, un paio di anni fa, un’intervista in un giornale locale, nella quale il direttore di un circo preso di mira dalle proteste affermava di viaggiare adottando e nutrendo gli animali di strada (pratica tra l’altro comunque molto discutibile dal punto di vista etico), configurandosi quindi come una specie di “canile ambulante”. Lo stesso direttore si lamentava del fatto che le locali associazioni animaliste non portavano coperte e cibo ai loro animali, come invece gli era accaduto in Francia.
Il messaggio lanciato più o meno chiaramente, è che quel tal circo si prendeva cura di animali di cui la collettività non riusciva a occuparsi. Più o meno come farebbe un rifugio.


Non solo: i circhi si equiparano alle fattorie didattiche, aprendosi alle visite durante il pomeriggio, cercando di figurarsi come agenzia educativa. Una pratica che in realtà depriva ulteriormente l’animale dei pochi momenti di privacy e vita sociale animale che, limitatamente alla qualità che può avere questo tipo di contesto, potrebbe permettersi, obbligandolo a mostrarsi collaborativo anche fuori dallo spettacolo.

Ancora: i metodi addestrativi si stanno affinando in efficienza. Anche se è impossibile sapere cosa succeda nelle sessioni di lavoro preparative agli spettacoli, almeno a parole viene dichiarato con fierezza che l’“apprendimento” viene ottenuto solo mediante premi, coccole e rinforzi. Concetti che spesso vengono confusi con l’amore. Ammesso che questo sia vero, che differenza c’è tra un circo e un centro cinofilo o un maneggio? E se ipotizziamo che non sempre il metodo del rinforzo positivo possa bastare con un elefante che non collabora e si passi alle percosse, ai ricatti, all’isolamento sociale, non è forse quello che accade ai cavalli che in altri contesti dimostrano di non gradire le richieste che vengono loro fatte e che vengono minacciati, terrorizzati o isolati fino a spezzarne le volontà?
Il parallelismo tra il mondo dentro al tendone e quello fuori dal circo può proseguire fino a toccare criticità a dir poco spiacevoli nel momento in cui ci rendiamo conto che lo stesso tipo di dipendenza emotiva che gli addestratori ricercano per far lavorare gli animali spesso viene riprodotta in perfetta buona fede in ambito domestico quando l’adattamento alla vita familiare cittadina viene perseguito attraverso ricatti emotivi, isolamento e deprivazione sociale. Il rapporto di sfruttamento nel primo caso, la convivenza nel secondo caso, non è il frutto di un dialogo quanto la limitazione unilaterale della volontà e della soggettività animale.

Sono convinto che dal punto della soggettività animale il disagio sia ugualmente forte in tutti questi contesti. Un cane ad una sessione di agility prova lo stesso disagio di una zebra che corre in circolo all’interno di un tendone. Così come un asino tolto da un contesto sociale stabile per essere portato per le strade di una città prova un disagio simile alla giraffa costretta a farsi fotografare nei pomeriggi prima degli spettacoli.

Il minimo comune denominatore tra tutti questi contesti è l’addestramento. L’impoverimento dell’animalità attraverso richieste umane. La negazione della soggettività attraverso il condizionamento.
Progredire nella critica all’uso degli animali nei circhi comprende quindi il fatto di includere in questa critica anche queste altre attività. E poco importa se il contesto sia un’attività a scopo di lucro, una Onlus, la protezione civile, il soccorso alpino, o un privato. I programmi di ri-educazione cinofila dei cani da rendere adottabili portata avanti persino da alcune associazioni animaliste e antispeciste, ha un fortissimo impatto per l’animalità di ogni singola soggettività. Lo stesso impatto che ha per un cane che viene addestrato alla ricerca o alla guida di persone non vedenti.
In tutti questi ambiti, il metodo usato è sempre lo stesso: il rinforzo positivo.
Lo stesso metodo che gli addestratori dei circhi affermano di usare.
Lo scopo finale è diverso. Ma gli effetti sono ugualmente devastanti.

Siamo quindi già arrivati al punto in cui non è più possibile mettere seriamente in discussione l’addestramento nel circo perché non esiste ancora una chiara posizione sul rinforzo positivo, e sui danni che provoca all’animalità.
Una presa di coscienza di questi danni e di questa deprivazione dell’animalità, in qualsiasi contesto venga messa in atto, rappresenta a mio avviso, l’opportunità più spiazzante e concreta per sbloccare questo stallo e dare nuovo slancio alla critica contro la mercificazione dei corpi e della mente animale.

Andrea Gaspardo


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