Foto: Getty Images, Dumbo allo Zoo di Londra
La cosa non ci sorprende né ci scoraggia: dopotutto l'indifferenza è un sentimento con cui dobbiamo fare i conti quotidianamente, che si tratti dell'arrivo di un circo, di una fiera venatoria, della costruzione di un macello, di un allevamento o di qualsiasi altro evento che releghi gli animali non umani alla stregua di oggetti, capi, merci, macchine, unità di produzione, schiavi, prigionieri.
E in tutte queste occasioni, che non rappresentano eccezione bensì regola in una società sorda al dolore di chi è altro da sé, ci immaginiamo catapultati indietro negli anni. Negli anni in cui dai binari di molte città europee partivano vagoni ferroviari carichi di uomini, donne e bambini diretti a un capolinea di morte. Silenziosi viaggi di sola andata consumati nella noncuranza di troppi.
E ancora tanti altri silenzi, come quello degli schiavi d'America e degli schiavi - umani e non umani- di tutto il mondo, i cui lamenti sono stati e sono a tutt'oggi soffocati due volte: dal sistema e dall'impassibilità di chi sceglie di non vedere.
L'indifferenza è, appunto, la sottile linea che accomuna tutte le vittime di questa società anestetizzata al dolore, società in cui la sorte riservata agli animali non è mai materia di riflessione in grado di scalfire secoli di educazione alla violenza.
Indira Gandhi affermava che “E' tutto collegato. Quello che accade ora agli animali, succederà in seguito all'uomo”. La storia ci insegna che è andata esattamente così e, fintanto che esisterà una barriera tra noi e gli animali, tutto questo continuerà ad accadere.
Fino a che non sarà riconosciuto agli animali non umani il diritto inalienabile alla vita, fino a che il loro olocausto avrà luogo, quella che ci ostiniamo -senza vergogna- a chiamare umanità, non potrà che continuare a smarrirsi nel vicolo cieco che essa stessa ha tracciato, fatto di violenza e sopraffazione.
Tornando alla nostra questione, è oltremodo paradossale ascoltare i circensi parlare di amore per gli animali, paragonando le "cure" ad essi destinate (sarebbe più appropriato dire "inflitte") a quelle di un genitore per i propri figli.
Anche qui salta all'occhio un denominatore comune che ci rimanda ad altre situazioni; si tratta infatti delle esatte parole che sentiamo pronunciare dagli allevatori della Sagra dei osei di Sacile e dai cavalieri del Country Cristmas, due eventi che caratterizzano tristemente il panorama legato al nostro territorio.
Eppure non dovrebbe essere così difficile comprendere che una vita libera non potrà mai e poi mai essere paragonabile alla condizione di schiavitù in un circo. Non dovrebbe nemmeno essere difficile capire che agli animali sfruttati nei circhi non è dato scegliere se esibirsi o meno negli spettacoli. La loro non è una professione né tanto meno una scelta artistica. Gli esercizi eseguiti meccanicamente sotto i riflettori e gli sguardi di tante divertite famiglie sono frutto di anni di addestramento.
E nessun addestramento può essere dolce per un animale che non è in grado di comprendere cosa lo si sta costringendo a fare.
Addestrare un animale significa piegarne la volontà e azzerarne la dignità.
Concetti di una linearità disarmante, eppure apparentemente difficili da comprendere. Ma è proprio così?
Crediamo di no.
Crediamo la chiave stia tutta nell'indifferenza, perché essa è un velo che rende più comoda la realtà.
Mettere in discussione una visione gerarchica uomo-animale significherebbe mettere in discussione una serie di abitudini a cui non si vuole rinunciare.
Per questo è più facile credere alle favole.
Ma le favole, occorre ricordarlo, non possono avere sempre un lieto fine.
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