Per l'occasione abbiamo rivolto alcune domande a Marco Reggio e Massimo Filippi, che ringraziamo per averci concesso questa intervista che pubblichiamo.
Quando parliamo di abolizione della carne ci riferiamo all'abolizione dell'assassinio di animali a scopo alimentare; allora sarebbe forse interessante capire chi sono gli animali, o cos'è un animale, al di là della classica definizione che ne danno i dizionari.
Quando parliamo di contrastare l’uccisione e lo sfruttamento di esseri senzienti per l’alimentazione umana, stiamo parlando di miliardi di individui trasformati in merce. Il loro status politico, ben più importante di qualunque definizione ne possano dare i dizionari o del sapere biologico accumulato su di loro e a loro spese, è definibile da una serie precisa di attributi: sono uccidibili, non possiedono una storia personale (una biografia), sono senza nome, non possono esprimere autonomamente richieste o rivendicazioni. Riassumendo gli “animali da reddito” e, più in generale tutti gli animali non umani, sono materie prime. Poiché però, che noi lo si voglia o meno, gli animali sono esseri senzienti, è certo che se smettessimo di considerarli e trattarli come merci, scopriremmo ben altro su chi realmente siano. Di fatto, l’unica certezza che oggi abbiamo degli animali è che di loro conosciamo poco o nulla. Pertanto, che cosa sia questo “ben altro” ancora oscuro è al momento indefinibile (e, probabilmente, è meglio che resti tale), anche se al proposito potremmo trarre qualche suggerimento dalla convivenza transpecifica che è già in atto tra “noi” e “loro” (pensiamo non solo ai cani e ai gatti che vivono nelle “nostre” case, ma anche ai tanti animali che vivono, seppur tra innumerevoli difficoltà, nelle nostre città, nelle loro vicinanze e nel loro sottosuolo).
L'abolizione della carne lascerebbe comunque aperte altre problematiche relative ad una visione antropocentrica della più ampia questione animale; come si inserisce l'iniziativa in un contesto di visione antispecista della società?
É fondamentale sottolineare che l’abolizione della carne non è sinonimo di abolizione dello specismo o dell’antropocentrismo. La produzione di carne, latte e uova è certamente l’aspetto maggiormente istituzionalizzato e drammatico della questione animale: oltre il 99% degli animali uccisi viene macellato, dopo una vita di inimmaginabili sofferenze, per l’alimentazione umana! Lo sfruttamento, poi, non è l’unico aspetto in cui si esprime l’antropocentrismo. In effetti, la rivendicazione sottesa alla richiesta di abolizione della carne potrebbe essere sostenuta anche da chi assegna un diverso “valore” ai bisogni o agli interessi dei membri di altre specie, ad esempio da uno specista moderato. Tuttavia, è immediatamente evidente che se fosse anche soltanto riconosciuta la plausibilità di tale rivendicazione, gli effetti sui rapporti di potere fra umani e altri animali e sulla solidità del “binarismo di specie” (umano/non umano) sarebbero semplicemente dirompenti.
Economia, morale, religione, politica ... quanto pesano questi fattori nella rivendicazione di un "sistema" che possa immaginare l'abolizione della carne?
É molto difficile assegnare un “peso specifico” alle istanze che avete enumerato e alle molte altre che avete lasciato inespresse nei puntini di sospensione. Certamente, il fattore economico è importantissimo, dal momento che stiamo parlando di un complesso industriale tentacolare dai fatturati impressionanti e che è fondamentale per alimentare (materialmente e simbolicamente) il sistema capitalista. D’altra parte, tutte le istituzioni sono di fatto schierate a difesa di questo settore dal sapere medico al potere mediatico, dagli enti nazionali e sovranazionali alla legge e al diritto, dalle narrazioni religiose alle ideologie del progresso, ecc.. Tuttavia, la religione gioca oggi – ieri e l’altro ieri probabilmente no – un ruolo meno decisivo dell’economia e della politica istituzionalizzata sulla questione animale: è vero che le religioni più “importanti” non sono mai state dalla nostra parte, ma la loro influenza sociale sembra essere in declino.
Molti, quando parlano di "abolizione della carne", immaginano un parlamento che promulghi una legge che "abolisca" il consumo di carne; è questa una visione corretta del messaggio che l'iniziativa vuole veicolare? In altre parole: l'appello per l'abolizione della carne è rivolto in primis alle istituzioni o all'opinione pubblica?
L’appello è rivolto, oggi, all’opinione pubblica: non tanto nel senso di un cambiamento individuale verso il vegetarismo/veganismo come stile di vita e di consumo o come modalità di boicottaggio del “mondo della carne”, quanto piuttosto come presa di posizione solidale di singolarità sociali che si pensano come parte integrante della “carne del mondo”. In prospettiva, però, l'appello è rivolto alle istituzioni affinché recepiscano questa richiesta di cambiamento che parte da settori sempre più ampi della popolazione. Certo, quando questo accadrà, le istituzioni stesse cambieranno volto, saranno irriconoscibili, ammesso che di istituzioni si potrà ancora parlare.
La filosofia ci permette di immaginare qualsiasi cosa, possiamo teorizzare qualsiasi "sistema" ma poi, come ben sappiamo, dobbiamo fare i conti con una realtà e uno stato di cose tristemente diversi: quanto c'è di "reale" nella richiesta di abolizione della carne?
A prima vista questa richiesta può apparire utopica; al tempo stesso, però, come abbiamo detto, è anche molto limitata e circoscritta. Quindi tale richiesta va presa alla lettera, anche se i tempi del suo accoglimento e della sua realizzazione potranno essere lunghi. Ma si pensi ai tempi che sono stati necessari e che sono ancora necessari per l’abolizione della schiavitù o l’emancipazione delle donne, dei gay, delle lesbiche e dei queer o per la libera circolazione degli umani che sono classificati come “migranti da respingere”. Questo per dire che il fatto che i tempi saranno lunghi non significa che non si debba rivendicare con chiarezza e interamente ciò che si ritiene giusto. Tornando agli animali non umani: se non siamo noi –attivist* per la liberazione animale – a richiedere con decisione che le loro carni non diventino carne, chi potrà farlo in nostra vece? Come possiamo essere presi sul serio se non chiediamo senza giri di parole la chiusura degli allevamenti e dei macelli? Tra l’altro, l’idea che le richieste “forti” siano utopiche e quindi sogni da “anime belle” è parte della stessa cultura che ha fatto dello smembramento dei corpi il suo emblema. Non molti anni fa, nel maggio ’68, sui muri di Parigi si poteva leggere: «Siamo realisti: chiediamo l’impossibile!». Ecco, l’abolizione della carne è anche il rifiuto di un certo modo di pensare il realismo come calcolo opportunistico e meschino e non come gioioso proliferare di ciò che avrebbe potuto essere e che solo la violenza e il dominio hanno relegato nella sfera dell’inimmaginabile.
Volendo per un attimo immaginare un luogo ipotetico su questo pianeta in cui venga realmente vietato il consumo della carne, con quali strumenti sarebbe fatto rispettare un simile divieto?
Purtroppo, oggi verrebbe fatto rispettare con gli stessi strumenti con cui vengono fatti rispettare tutti i divieti. Certo, questo non ci piace, ma la vostra domanda, un po’ in stile “scialuppa di salvataggio” ed “esperimento mentale”, detta già la risposta. Non esisterà mai un’isola “felice” isolata dal resto del pianeta, come non è pensabile il persistere del Diritto e della Legge così come si danno attualmente, una volta che la carne verrà abolita. Detto altrimenti e per usare una metafora, non dobbiamo più pensare in maniera meccanica (succede questo, quindi devo fare quest’altro e quindi accade quest’altro ancora, ecc.), ma in maniera frattale (succede qualcosa che fa emergere proprietà del sistema di cui poco prima non potevamo neppure sospettare l’esistenza e che lo modificano tramite complessi sistemi di feedback, di “effetti farfalla”, di “emergenze” e di “catastrofi”). Forse, bisognerebbe tornare alla visionarietà del realismo dell’immaginazione di cui si diceva: oggi elaboriamo una critica serrata dello stato di cose esistente, inneschiamo i processi di cambiamento e vediamo che cosa succederà domani. Certo mantenendo alta l’attenzione e il dissenso, ma senza pensare di essere le avan-guardie di un mondo che vorremmo fatto a nostra immagine e somiglianza.
L'abolizione della carne potrebbe essere considerata una rivendicazione "politica", ma quale politica immaginiamo quando poniamo questa richiesta? La politica come la conosciamo oggi non prenderà mai in considerazione questa possibilità: abbiamo quindi bisogno di una diversa politica? E se si, quale?
Certamente, abbiamo bisogno di un’altra politica, di una politica di ampio respiro. Da una parte, c’è bisogno di coraggio, cioè di persone che sostengano rivendicazioni dettate dalla giustizia sociale e che si muovano verso un’uguaglianza che superi i confini di specie, anche se ciò significa necessariamente la rinuncia ai molti privilegi che l’umano si è auto-assegnato. Questo vale, come è ovvio, anche per altre grandi questioni: quella dei migranti, per esempio. D’altra parte, c’è bisogno di sentire una vicinanza di condizione con gli “animali da reddito”: chi, umano, è escluso dalle scelte politiche ed economiche è sfruttato e reso invisibile; per certi versi, ha molto più in comune con gli animali che non con i membri “che contano” della sua stessa specie. Di quale politica abbiamo bisogno, allora? Di una politica che, come direbbe Jacques Rancière, sia capace di scompaginare le classificazioni che la polizia vede come naturali, di una politica capace di far sì che umani e animali possano continuamente cambiare di posto.
Alcuni pensano che la scelta di non uccidere gli animali per l'alimentazione debba scaturire da una libera presa di coscienza, forse dimenticando che nessuno si immaginerebbe di legalizzare l'omicidio. Cosa rispondereste a queste persone?
Che nessuno si dovrebbe sognare di legalizzare l’omicidio! Detto questo, è anche importante che ci siano sempre più “libere prese di coscienza”. Tuttavia, l’idea che la messa in crisi della legittimità di una vera e propria strage, immensa e quotidiana, possa essere demandata interamente al “buon cuore” dei singoli è qualcosa di davvero fuorviante. Di fatto, nessuno farebbe un discorso del genere se si stesse parlando di genocidi, stragi, omicidi, femminicidi, stupri, pedofilia, ecc. Spesso si pensa all’abolizionismo come a una forma di proibizionismo: ti impedisco di fare questa cosa perché fa male a te. Ma qui non stiamo parlando dell’insalubrità della la carne per il consumatore, bensì della morte e della sofferenza degli altri, di quegli altri che vengono messi al mondo, controllati a vista, ingrassati a forza e caricati a botte sui camion della morte per essere condotti al mattatoio – unico momento in cui viene permesso loro di uscire dalle gabbie – e diventare quello che sono sempre stati: carne macellabile.
Molti ritengono strategicamente sbagliato utilizzare la parola "abolizione" - forse per la paura di non essere compresi, di non riuscire a "portare a casa" piccole (e purtroppo spesso ingannevoli) vittorie nell'immediato; perché, in controtendenza, avete scelto di utilizzarla?
Questo termine e questa strategia non intendono certo “bloccare” chi vuole adottare, a fianco di rivendicazioni più chiare, anche la cosiddetta “politica dei piccoli passi”. Quello che crediamo sia importante è che si dica apertamente che vogliamo che allevamenti e mattatoi siano chiusi, e non ampliati, abbelliti o resi “più umani”. D’altra parte, parlare di “abolizione” è ancora insufficiente, se pensiamo che quello che vorremo – e che vogliamo veramente – è la liberazione del vivente. Anche in questo caso, però, abolizione e liberazione non si escludono a vicenda.
Marco Reggio - attivista antispecista, componente dell’associazione «Oltre la Specie» e membro della redazione di «Liberazioni. Rivista di critica antispecista».
Massimo Filippi - professore di neurologia presso l’Università “Vita e Salute” di Milano, si occupa da anni della questione animale da un punto di vista filosofico e politico. È socio fondatore dell’associazione «Oltre la Specie» e membro della redazione di «Liberazioni. Rivista di critica antispecista».
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