martedì 27 gennaio 2015

La merda come disvelamento - di Egon Botteghi



Ringraziamo Egon Botteghi per averci concesso la pubblicazione e la condivisione di questo bellissimo articolo, tratto da Antispecismo.net

“La merda come disvelamento”
come far cascare il velo di Maya dell'equitazione in una semplice mossa.

di Egon Botteghi

Al matematico devono fare orrore le mie elucubrazioni matematiche, infatti il suo addestramento lo ha sempre distolto dall'abbandonarsi a pensieri e dubbi, come quelli che sviluppo io.[...]egli ha conservato una forma di disgusto di fronte a queste cose come se fossero qualcosa di infantile. Cioè, io sviluppo tutti quei problemi che un bambino nell'apprendere l'aritmetica ecc. percepisce come difficoltà e che l'insegnamento reprime, senza risolverli. Io dico dunque a questi dubbi repressi: voi avete ragione, domandate pure, ed esigete una chiarificazione
(Ludwig Wittgenstein, Philosophische Grammatik)



Una volta Ludwig Wittgenstein affermò che le domande dei bambini sulla matematica, quelle domande che sembrano a noi adulti ingenue, fuori luogo e mal poste, sono invece le domande fondamentali che andrebbero ascoltate.

Questo mi riporta a quanto accade nell'interazione tra istruttore di equitazione ed allievi “alle prime armi”, a quanto accadeva anche a me al tempo in cui lavoravo entusiasticamente come istruttore di equitazione, passando le mie giornate nel rettangolo del campo ostacoli, tra aspiranti cavalieri ed amazzoni, grandi e piccoli, e cavalli che dovevano prestare il proprio corpo alla funzione del “far imparare”[1].

I bambini e le bambine, come anche le persone adulte, che nel loro status di insipienza momentanea regredivano allo status di infanti, mi ponevano infatti delle domande importanti sulle prassi e sugli strumenti che io gli stavo proponendo, delle perplessità e delle resistenze che sarebbe stato giusto ascoltare ed analizzare, a cui io però ero addestrato a rispondere prontamente, disinnescando la loro portata e placando la loro ansia di poter fare del male al cavallo.

La maggior parte delle persone, ed io fra queste, si avvicinano infatti all'equitazione per un interesse per l'animale cavallo, o per gli animali in genere, o per un generico desiderio di passare del tempo a “contatto con la natura”.

L'addestramento al dominio viene dopo.

Purtroppo l'equitazione ci viene presentata e proposta in risposta a questi interessi, come il modo per eccellenza di rapportarsi ai cavalli, come modo per essere vicino a questi animali.

Il cavallo è trasformato nell'animale da equitazione e chi pratica l'equitazione in amante degli animali, facendo passare cattività, sopruso e dolore per amicizia e sodalizio.

L'equitazione è l'arte di addestrare i cavalli all'ubbidienza e l'arte di tacitare le domande fondamentali che  molti esseri umani si pongono sul cosa stia veramente succedendo al cavallo nel momento che lo cavalco, e di quale siano le sue esigenze reali.

Una delle domande ricorrenti riguardava l'uso dell'imboccatura[2].

Moltissime persone rimanevano un po' sgomente all'idea che il cavallo dovesse indossare nella sua bocca questo pezzo di ferro, per poter essere da loro direzionato.

Spontanea insorgeva la domanda, spesso accompagnata con faces di disgusto e/o di apprensione: “Ma non fa male? Ma non sta scomodo?”

Io mi affrettavo a spiegare diligentemente che la bocca del cavallo non è uguale alla nostra (come se in questa domanda si celasse un errore di “antropomorfizzazione del cavallo o troppa immedesimazione), che quindi l'imboccatura trova il suo alloggiamento nelle barre, cioè in quella porzione della bocca del cavallo che è priva di denti e che quindi non causa il dolore che sentiremmo noi ad avere un pezzo di ferro che ci batte sui denti.

Poi insegnavo loro come far indossare l'imboccatura al cavallo, come mettergli un dito in bocca per indurlo ad aprirla.

Il passo successivo, per molte ore di insegnamento, era però poi quello di insistere ed insistere a dosare con molta attenzione la forza delle loro mani sull'imboccatura, perché poteva risultare molto dolorosa per il cavallo.

Insomma il problema non era lo strumento in se, ma imparare ad usarlo bene per non causare eccessivo dolore.

Ma quante ore di equitazione, e quante bocche di cavalli da scuola torturate per fare in modo che un cavaliere od un'amazzone acquisissero una buona mano?

In realtà il problema è proprio quello che faceva arretrare di disgusto alcuni neofiti e cioè l'imboccatura, perché il fatto che vada sistemata sulle barre, prive di denti, non toglie niente all'essenzialità del fatto che l'imboccatura sia uno strumento che provoca dolore, agendo mediante pressione proprio attraverso il contatto tra il metallo e l'osso.

Le barre sono infatti parte ossee con un margine affilato (con una sezione della stessa misura di un guscio d'uovo) coperte solo da un sottile strato di gengiva e dalle mucose della bocca. In corrispondenza delle barre l'osso della mandibola non è imbottito né in alcun modo protetto dal morso ed è esposto ai traumi come le creste tibiali dell'essere umano[3].

Ma la spiegazione che allora avevo confezionato serviva a tranquillizzarci tutti sul fatto che l'uso del morso non fosse un problema in sé, anche se era contro intuitiva.

Innanzitutto era rassicurante perché data dall'autorità indiscussa di quella situazione e cioè io, l'istruttore, la persona che in quel momento deteneva il controllo su tutti gli attori, cioè allievi e cavalli e poi perché ci vuole poco a tranquillizzarci quando una cosa proprio non siamo disposti a vederla.

Analoga la situazione con l'uso degli speroni.

Più difficile dissimulare il fatto che lo sperone esista apposta per provocare dolore al cavallo e quindi più articolata doveva  essere la risposta atta a far apparire comunque il cavaliere come un buon amico del cavallo, un binomio affiatato, come si dice in gergo.

Sullo sperone c'è addirittura un galateo dell'uso, per cui andrebbero tolti una volta scesi da cavallo, a meno di non essere un militare o un machissimo esponente della monta western, che va sempre in giro con gli speroni bene in vista sugli stivali.

Gli speroni poi in genere non si fanno indossare ai neofiti, ma solo alle persone che abbiamo acquisito una certa esperienza (ma se il cavallo è pigro si mette al bambino subito in mano una bella frusta!)

Gli speroni sono infatti degli strumenti di metallo (oggi anche in plastica), da applicare al tacco degli stivali, che terminano con varie forme, a secondo della severità (ci sono anche quelli che terminano con delle rotelle appuntite).

Servono, conficcandoli nei fianchi dei cavalli, come ausilio per indurli ad avanzare e spesso (ma anche qui il bon ton suggerirebbe di non farlo troppo in pubblico) vengono usati per impartire una vera e propria punizione.

A chi mi domandava se questi speroni non fossero troppo dolorosi per i cavalli, io rispondevo, anche qui, di non immaginare i fianchi dei cavalli delicati come i nostri e di non immaginare quindi di ricevere una gragnuola di colpi sulle costole, perché i fianchi dei cavalli sono meno sensibili.

Quanti cavalli ho invece visto fiaccati dagli speroni, con ferite aperte sui fianchi dalle punte delle rotelle, con il derma scollato tra muscolo e pelliccia in corrispondenza della zona di azione degli speroni e presi a speronate in qualsiasi circostanza (perché quando ci vuole ci vuole ed il cavaliere alla fine deve farsi ubbidire) che sia un campo prova, un campo ostacoli in una gara ufficiale o una simpatica passeggiata tra amici.

La domanda però che faceva emergere tutta la schizofrenia tra la mia condizione di cavaliere professionista ed animalista, era quella che le persone che mi riconoscevano appunto come amante degli animali da sempre, mi rivolgevano sul mio ingaggio all'ippodromo.

Nei dieci anni che ho infatti lavorato come artiere a cavallo negli ippodromi di corse al galoppo (ed un paio di anni anche in quelli al trotto), alcune persone che mi conoscevano bene, mi chiedevano  come potessi essere coinvolto, senza star male, in questo mondo così duro con i cavalli, e come potessi montare questi cavalli senza sentirmi responsabile per la loro sorte.

Allora io rispondevo che umani e cavalli condividevano lo stesso destino, cioè quello di lavorare per vivere e che la vita era dura per entrambi, sia per gli artieri che per i purosangue, ma che questi ultimi erano trattati con tutte le attenzioni (lettiera dei box altissima e pulita, iper nutriti, etc, etc...).


Ma quando i cavalli non erano, o non erano più, competitivi, che fine facevano?

E quanti cavalli ho visto infortunarsi ed essere abbattuti?

O infortunarsi nelle mani di un artiere violento?

E la vita a cui erano costretti, tra box e piste e gabbie di partenza, quale vita era per un erbivoro nomade e sociale?

Dopo anni di esperienza anch'io mi ero trasformato da amante dei cavalli in amante dell'equitazione, subendo questo slittamento in maniera abbastanza inconsapevole, e mi impegnavo a difendere questa pratica, che era il mondo in cui vivevo, con questa retorica mistificante in cui però credevo sinceramente, perché era l'attività che mi permetteva di passare la mia vita con questi animali e quindi soddisfare la mia esigenza originaria: stare in mezzo ai cavalli.

E' con una certa ironia della sorte che mi ritrovai così, ad un certo punto della mia vita, nel tentativo di approfondire sempre di più la mia conoscenza del cavallo e dell'arte dell'equitazione, a pagare soldi per essere costretto ad ascoltare quelle domande che molte persone mi avevano rivolto in precedenza gratuitamente.

Nal 2008 infatti partecipai ad uno stage di un istruttore francese, noto per essere un maestro accreditato nell'uso della Bitless Bridle, un finimento senza morso considerato cruelty free, inventato dal Dr Robert Cook che nel 2000 vinse, ad Equitana USA, l' Enterprise Award per “il finimento equino più innovativo”.

Certo di stare per incrementare la mia abilità nell'usare questo strumento ancora quasi sconosciuto in Italia, di cui la nostra era una delle poche scuole promotrici, presi Mirtillo, un cavallo con cui stavo lavorando, e partii.

Quello stage cambiò la mia vita in una maniera che non avrei mai immaginato.

Da quel giorno infatti non montai più a cavallo e se qualcuno me lo avesse detto prima avrei pensato che fosse completamente matto.

Quell'istruttore non era infatti lì con lo scopo che io credevo (anche se mi avevano avvertito che avremmo lavorato più a terra che a cavallo) ma con quello di metterci a nudo di fronte alle nostre responsabilità, di costringerci a guardare per farci cambiare paradigma.

Con un semplice gesto ci fece cadere dal naso gli occhiali con cui guardavamo al nostro mondo di bravi cavalieri e ci costrinse a chiamare le cose per nome.

Fu molto semplice per lui, perché in effetti ci fece vedere delle cose che tutti noi conoscevamo benissimo, senza però darci il modo di trovare delle giustificazioni.

La nostra lingua mistificatoria rimase muta.

Da francese qual'era, usò un bellissimo francesismo per spiegare quello che stava facendo con noi: “Io vi metto il naso nella merda, poi voi potete decidere anche di rimanerci, ma non potete dire che non è merda”.

Primo di quello stage avevo già fatto un lungo cammino per naturalizzare sempre di più la gestione dei cavalli che lavoravano con noi e per “eticizzare” l'equitazione che praticavamo.

Mi ero alla fine convinto a togliere i ferri ai cavalli; li facevamo vivere in compagnia in paddock [4] più ampi possibili, montavamo senza imboccatura e con una sella-non sella, per sentire meglio il corpo e le risposte del cavallo, ma in quel momento mi ridestai dal sonno dell'equitazione e capii che non c'era un modo giusto per fare una cosa sbagliata.

Il velo di Maya era caduto ed io mi sentivo nudo, spaesato, privato del mio mondo ma con la ferma volontà di non tornare indietro e di non nuocere più ai cavalli.

Tornai a casa e non senza angoscia e difficoltà smantellai la scuola di equitazione, ricevendo molte critiche da parenti, amici ed allievi e a poco a poco il maneggio si trasformò in un rifugio per animali da reddito.

Non sapevo se avrei resistito senza montare, un elemento che mi apparteneva come i pesci all'acqua.

Passai lunghi mesi nel paddock con i cavalli, limitandomi a guardare cosa facevano, cercando di conoscerli per come non avevo mai fatto, e qualcuno di loro, piano piano, si riavvicinò a me.

In quel periodo sognavo spesso di montare a cavallo, quasi che la mia nostalgia prendesse le ali di notte.

Un giorno mi ridestai da un sogno e decisi di scriverlo, perché vi era spiegata la ragione della mia promessa e del perché mi sembrerebbe di tradire un cavallo montandoci sopra:

“Un giorno, su di una strada, vidi venirmi incontro un cavallo ed un uomo che gli camminava a fianco.

Si trattava di un purosangue arabo e del suo orgogliosissimo padrone.

Il cavallo era stupendo, da lasciare senza fiato, con un pelo sauro che brillava al sole, il muso pieno di espressione, gli occhi neri che sembravano truccati ed era ricoperto di broccati e pietre preziose.

L'uomo aveva baffi scurissimi e si ergeva in tutta la sua altezza pieno di importanza.

Una volta arrivati di fronte a me si fermarono; sapendo che anch'io ero un cavaliere e che avevo vissuto una vita insieme ai cavalli, l'uomo mi rivolse la parola:

“Ammira i risultati a cui si può arrivare con il giusto addestramento, condotto nell'amore, nella conoscenza e nel rispetto di queste creature”:

Così i due mi omaggiarono di uno spettacolo per me mai visto.

Il cavallo, apparentemente libero e guidato solo da piccoli, ieratici gesti del conduttore, si esibì in una danza di salti, piroette, inchini da rimanere senza fiato.

Quello che quei due facevano insieme era senza precedenti e sfidava tutto quello che sino ad allora si era creduto sul rapporto tra uomo e cavallo.

Sembrava che avessero una reciproca fiducia illimitata e sopratutto che parlassero lo stesso linguaggio.

Fui pervaso da una ammirazione e da un invidia senza pari.

Quale cavaliere non vorrebbe capire e farsi capire così alla perfezione dal proprio animale?

Nel bel mezzo della mia estasi, alla fine dell'esibizione, fui però attirato da qualcosa dentro lo scuro degli occhi del cavallo, e ne fui quasi risucchiato.

Mi avvicinai allora alla sua testa perfetta e quello che vidi mi sconvolse.

Tristezza, profonda tristezza.

Il cavallo mi disse sommessamente, ma decisamente, che quello che avevo visto era uno spettacolo senza senso.


Allora udìì chiaramente “Liberami!”

“Per favore, liberami.

Io sono un  cavallo. Voglio correre se ne ho voglia, ma sopratutto voglio camminare con quelli della mia specie.

Voglio un branco con il quale spostarmi per brucare, per abbeverarmi nei fiumi e nelle pozze.

Voglio la pioggia che mi bagna, il sole che mi asciuga, il vento che mi fa tremare.

Voglio temere per i predatori, rilassarmi con i miei compagni, fremere per l'accoppiamento.

Non voglio l'oro sulla mia pelle, i vostri applausi per le mie impennati, le vostre punizioni per i miei sbagli.
Sono un cavallo, liberami.”


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[1]     L'espressione “navi scuola” che è usata per indicare molti cavalli da maneggio impiegati nelle scuole di equitazione mi ricorda la stessa espressione usata per le prostitute, il cui corpo era utilizzato per imparare il sesso e per consumare le prime esperienze. Espressione che viene utilizzata anche in riferimento ad alcune donne considerate di “facile arrembaggio”, con cui chiunque può consumare una esperienza sessuale. L'analogia tra impiego dei cavalli da scuola e uso dei corpi femminile nella prostituzione mi è stata riferita, come sensazione che creava un forte disagio ed un forte senso di ingiustizia, da diverse persone che hanno provato ad imparare ad andare a cavallo ed hanno quindi frequentato le scuole di equitazione.

[2]     L'imboccatura è un pezzo di ferro (ma può essere fatto anche di altro materiale o rivestito di altro materiale) che viene collocato nella bocca del cavallo e tenuto in posizione dalla testiera. Alle due estremità dell'imboccatura sono sistemate le redini, strisce di cuoio o di materiale sintetico, che vengono impugnate dal cavaliere o dal guidatore che impartisce gli ordini al cavallo.

[3]     Confronta anche Robert Cook, 2004


[4]     Recinti


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