La maternità è uno degli elementi chiave del film di cui si parla a lungo in questi giorni, in occasione dell'uscita nelle sale.
Hungry Hearts, ultima fatica di Saverio Costanzo, era stato presentato mesi fa al Festival del Cinema di Venezia conquistando due coppe Volpi e accendendo un dibattito che torna a fare cronaca.
Leggendo le dichiarazioni rilasciate dal regista e le repliche a cura di alcune fra le principali associazioni animaliste italiane, abbiamo maturato il desiderio di approfondire la questione e cercare di saperne di più.
Questa necessità ci ha spinti a visionare Hungry Hearts e, nel contempo, a leggere il romanzo che lo ha ispirato ("Il bambino indaco" di Marco Franzoso, pubblicato da Einaudi nel 2012); era a nostro avviso importante capire quante e quali analogie vi fossero tra pellicola e romanzo, quanta parte del film fosse frutto della personale elaborazione del regista e quali passaggi fossero stati fedelmente trasposti.
Il sentimento che ci ha accompagnati, sia nella lettura che nella visione, è stato quello di profondo dispiacere.
Dispiacere e sincera pena nei confronti di una madre che si smarrisce nel buio senza ritorno del proprio malessere, creando per sé e per suo figlio una realtà viziata e invivibile.
A questo sentimento è gradualmente andato unendosi un forte disagio. Siamo abituati a leggere di drammi familiari e di maternità malate; sono storie che sempre più spesso riempiono le cronache dei giornali.
La vicenda narrata da Franzoso -e, di conseguenza, da Costanzo- è però singolare. Lo è in primis perché frutto della libera ispirazione dell'autore (non siamo pertanto di fronte a personaggi realmente esistiti).
Lo è, aggiungiamo noi, perché si sceglie di narrarla conferendovi connotazioni ben precise e non lasciate al caso.
La protagonista femminile (Isabel nel romanzo, Mina nel film), con il manifestarsi della gravidanza, inizia ad adottare una "disciplina" alimentare tale da portarla a praticare il digiuno (affamando di conseguenza anche il figlio) nell'ottica di un desiderio di purificazione riconducibile, tra l'altro, a teorie pseudoscientifiche di derivazione New Age (una fra queste, appunto, quella sui bambini indaco).
Rifiuta di ammettere di avere fame, arriva a negare la realtà di un figlio reso- a pochi mesi di vita- insonne e apatico, incapace di camminare.
Cieca ad ogni sintomo del dramma che si consuma sotto i suoi occhi, sceglie di affidarsi esclusivamente al proprio "istinto di madre", certa di essere l'unica in grado di prendersi realmente cura di quel bambino speciale.
L'alimentazione -o meglio, la non alimentazione- gioca un ruolo fondamentale in tutta questa vicenda. Si parla di digiuno ma anche di assunzione di cibi quasi esclusivamente liquidi, di grossi quantitativi d'acqua atta a "purificare" e saziare, riempire lo stomaco.
Isabel/Mina smette di ingerire cibi solidi fino a che, scartando "ogni giorno un nuovo cibo avvelenato", non le rimane quasi più nulla di cui nutrirsi.
Abluzioni intestinali, "diete estreme detossicanti, realizzare l'ideale di un'igiene perfetta", pasti a base di fette di cetriolo, cubetti di avocado, fichi e succo di datteri.
Lei arriva a pesare 38 chili, il bambino continua a piangere per la fame: "quella non era fame e quelli non erano pianti, sosteneva lei. Era il modo in cui i bambini rafforzavano le vie respiratorie".
Questa storia di estrema sofferenza non manca di turbare il lettore/spettatore; eppure -sostengono sia Franzoso che Costanzo- la storia di Isabel/Mina è narrata con delicatezza e massimo rispetto, senza intento alcuno di condannare o giudicare.
Peccato che propositi così nobili siano di fatto traditi da tutti quegli indizi, che si insinuano tra le pagine del romanzo e le sequenze del film, atti a condurre il pubblico a un'unica, facile conclusione: Isabel/Mina è una donna "malata" perché è vegana. Come a dire: da vegana a ortoressica, il passo è breve e consequenziale.
Eccoci ancora una volta di fronte alla stigmatizzazione della scelta vegan, etichettata dai media e da certa parte dell'opinione pubblica come deviante, estrema e pericolosa, da non emulare.
Ne è convinto Saverio Costanzo, attento a chiarire che "chi fa scelte radicali tende a diventarlo sempre di più". La pensa evidentemente alla stessa maniera Marco Franzoso, che affronta il complesso tema del disturbo alimentare legandolo a doppio filo con una personale quanto discutibile visione del veganismo.
Nel romanzo, per rafforzare questa credenza e in mancanza di una sincera comprensione di cosa realmente significhi essere vegan, si sceglie di battere la ben più comoda strada dei luoghi comuni: ecco che la protagonista, da vegana quale la si vuol dipingere, non può che lavorare in erboristeria, ascoltare musica etnica, dormire su un tatami, bere tisane al timo, frequentare un corso di yoga prenatale, affidarsi a un'esperta di pulizia dell'aura, disporre candele in casa seguendo la disciplina del feng shui, consultare pediatri alternativi, steineriani, olistici, new age, prediligere negozi biologici con "cassiere fondatrici di siti internet sul veganesimo", credere in santoni e guaritori delle cui foto riempire ogni angolo della casa, bere acqua magnetizzata, contare ossessivamente i ripetitori dei cellulari durante i viaggi in auto.
E' vegana, per cui -avrà pensato Franzoso- va da sé che debba vivere in una casa che risuona di musica di corni tibetani, arredata con tende bianche di lino biologico e tappeti acquistati in un mercatino equosolidale, profumata di incenso fatto arrivare per posta aerea da Ceylon. La sua condizione di vegana non può (sempre nell'immaginazione dell'autore) che trasformarla in persona fobica passivo-aggressiva, madre ossessionata dal digiuno, dalla purezza, dal "nutrirsi di luce".
Ella decide per sé e per il figlio, e Franzoso non manca di sottolineare come lo svezzamento del bambino sia "rigorosamente naturale, biodinamico, vegano, crudista."
Costanzo omette molti di questi dettagli, forse per una scelta di sintesi soggetta a esigenze cinematografiche.
Tuttavia ciò non lo esime dal giudicare, nonostante egli dichiari il contrario.
Il suo voler trasporre cinematograficamente questa storia, facendola conoscere al grande pubblico, rappresenta di per sé un giudizio sul veganismo.
La dichiarazione stessa "chi fa scelte scelte radicali diventa intollerabilmente radicale, e l’ideologia ha ucciso milioni di persone", ripresa in tutte le recensioni del film, è un giudizio senza appello.
Di fronte a uno scenario così disarmante possiamo solo replicare affermando che l'arte, in tutte le sue forme, ha una grande responsabilità; essa veicola messaggi e sensazioni capaci di esercitare un forte influsso su quanti, come lettori o spettatori, vi si avvicinano.
Ridurre la scelta vegan a disturbo alimentare significa prendersi la responsabilità di un messaggio disonesto, oltre che pericoloso e fuorviante.
Non stiamo parlando di un'ideologia, di una condizione "estrema e radicale", né di una disciplina o di una dieta, e di certo essa non contempla il nutrirsi di soli cetrioli, datteri e polpa di avocado.
Essere vegan significa compiere scelte consapevoli (non soltanto alimentari) nel più profondo rispetto della vita di chiunque.
Se- a detta di Costanzo- chi fa scelte radicali diventa sordo, ci chiediamo quante persone "equilibrate, misurate, moderate" (al contrario degli "estremisti vegani") si ostinino ad essere ancora così sorde al lamento di morte degli animali.
Perché se, come lui afferma, l’ideologia di qualunque tipo ha ucciso milioni di persone, noi siamo a ricordare che il sistema in cui viviamo uccide da sempre miliardi di animali non umani, ad ogni latitudine e sotto qualsiasi ideologia.
Per quanto invece concerne la nostra specie, ricordiamo a Franzoso e Costanzo (nel caso non ne fossero a conoscenza) che più di 100.000 minori, solo in Italia, sono in carico ai servizi sociali a causa di abusi o maltrattamento.
I genitori saranno per caso vegani?
Nessun commento:
Posta un commento